Christina Mackie alla Fondazione Ratti di Como. L’intervista
Parola a Christina Mackie, invitata a condurre l’ormai noto workshop estivo promosso dalla Fondazione Antonio Ratti di Como.
Lo scorso 2 luglio la Fondazione Antonio Ratti ha avviato la 24esima edizione del workshop estivo CSAV – Artists’ Research Laboratory, che quest’anno è guidato da Christina Mackie (Oxford, 1956) e che terminerà il 25 luglio. Ispirandosi al titolo, How to Begin, diciotto artisti seguiranno le sue lezioni e svilupperanno una mostra. I selezionati su oltre trecento candidature sono stati: Yusef Audeh (USA/Palestina), Simon Belleau (Canada), Joe Brown (Gran Bretagna), Paula Buskevica (Lettonia), Vincent Ceraudo (Francia/Italia), Omar Chowdhury (Bangladesh/Australia), Inga Danysz (Polonia), Gustavo Gomez Brechtel (Messico), Nicolas Gullotta (Argentina), Zishi Han (Cina), Petra Hjartardóttir (Islanda), Mourad Kouri (Svezia/Siria/Canada), Vibeke Mascini (Germania), Anna Meschiari (Italia/Svizzera), Rebecca Moccia (Italia), Fathia Mohidin (Svezia), Lisa Trogen Devgun (Svezia) e Andrea Zucchini (Italia).
Il tema del laboratorio How to Begin è suggerito dalle riflessioni di Mackie sullo spazio che precede e informa la creazione di un’opera d’arte. Gli interrogativi aperti da questa ricerca sia nel contesto di una pratica artistica individuale sia in quello di un incontro di gruppo, verranno analizzati durante il laboratorio con il contributo di Chris Fite-Wassilak e Kate Briggs, discussioni teoriche e ricerche artistiche individuali e collettive.
Il 19 luglio sarà inaugurata la personale di Mackie, un progetto ambizioso dal titolo People Powder, all’interno del quale, oltre all’opera Yellow Machines, prodotta in occasione della sua mostra personale alla Tate Britain nel 2015, saranno installate opere site specific ideate appositamente per lo spazio della chiesa di San Francesco a Como.
Giganteschi filtri, prodotto di una tecnologia sofisticata ma apparentemente privi di funzione (Yellow Machines), saranno riallestiti raggiungendo un nuovo e forse conclusivo capitolo alla ricerca di Mackie sul passaggio fra stati diversi, aggiungendovi una serie di animazioni video. Inoltre verrà presentata un’installazione site specific composta di preformati abrasivi e rigranulati plastici tecnologicamente complessi.
L’INTERVISTA
È possibile, nell’arco della tua carriera, individuare una guida che tu hai seguito nell’arte?
Sono cresciuta in Canada, dove la natura era adorata nonostante l’origine di ogni risorsa naturale fosse la cultura. Emily Carr è stata un’interessante artista locale. Inoltre sono stata influenzata dalla Formline art infusa nella collezione Northwest Coast First Nations, una raccolta alla quale abbiamo sempre guardato come un punto di riferimento. Inoltre sono sempre stata attirata da Robert Smithson e Nancy Holt. Sono venuta in Europa per osservare l’arte dal vivo, al di là delle sue riproduzioni, e ho riscoperto i pittori del primissimo Rinascimento, come Duccio e Giotto, senza dimenticare che ho molto amato gli affreschi a parete d’arte bizantina, in Macedonia.
Tra un atto di transizione e un’osservazione solidificata, ogni tuo lavoro rappresenta un dialogo fitto nei confronti dell’ambiente all’interno del quale viene installato. In quale modo questa relazione si ritrova nei tuoi lavori?
Uno dei piaceri più immensi offerti dal mio lavoro è quello di riuscire a trovare un equilibrio e una sintonia con lo spazio. Io utilizzo la tensione tra quel che ho realizzato e il luogo nel quale verrà situato per dar vita a qualcosa di nuovo.
I pigmenti colorati sono sempre stati un elemento fondamentale per le tue composizioni, come reali forze vettrici, non solo come materiali. Come mai?
Ho esplorato il colore in quanto pigmento in un solo set dei miei lavori. Il mio interesse non consisteva solamente nella storia del colore ma anche nel potenziale del materiale in un suo stato indifferenziato. Queste componenti che arrivano dalla terra hanno una storia e risuonano a una frequenza che fornisce il loro colore. Il colore è fondamentale, dopo tutto i dipinti rimangono fra i più costosi oggetti in assoluto e forse probabilmente viaggeranno oltre la terra, le sopravvivranno e rappresenteranno il nostro pianeta, su altri pianeti, di fronte ad altre forme viventi.
Potresti descrivere l’intento di Yellow Machines all’interno della mostra alla Tate Britain?
Si tratta di un lavoro composto da oggetti metallici color giallo brillante, contenenti alcuni filtri. Ne esistono due di quel tipo, ma non sono unici. Le macchine gialle sono analoghe alla forma e alle proporzioni di un iPhone. Non sono readymade, ma non sono neppure oggetti semplici da reperire, cose che raccontano la loro utilità. Sono prodotti che filtrano, che vagliano informazioni. Li ho prelevati e astratti dall’equipaggiamento scientifico, dalla fabbrica, dai video nei luoghi di produzione e dalle osservazioni quotidiane, nonostante al primo sguardo sembrino semplicemente objet trouvé. Sembrano oggetti a riposo. Alla Tate si trovavano nella sezione centrale di una mostra dedicata al filtraggio e alla condensazione di informazioni.
In che modo la chiesa di San Francesco a Como ha messo alla prova Yellow Machines?
In teoria non saprei come rispondere perché ancora non l’ho sperimentato. La chiesa ha un’analoga qualità cerimoniale, rituale e sarà interessante notare come quelle enigmatiche sculture industriali interagiranno con essa. Ho esteso il concetto di filtro per includere le persone come se fossero particelle all’interno di una serie di proiezioni che io mostrerò allo stesso tempo.
Parlando, invece, del corso che svilupperai con gli studenti, quali saranno i temi delle tue lezioni?
Il tema generale è Come cominciare? E stiamo parlando di come essere e di come diventare quello spazio che giace nel mezzo delle due dimensioni. Stiamo anche esplorando la traduzione e il processo di aggregazione delle idee che viene convogliata nell’immagine, per esplorare i parametri di quei pensieri trasposti in un altro medium.
Come hai concepito didatticamente le tue lezioni: empiriche, accademiche, teoriche, frontali oppure definitivamente pragmatiche?
La forma del workshop non sarà solo caratterizzata da esercizi pratici e da discussioni personali su come inizia ogni lavoro e verrà esposto attraverso Aperto, una mostra delle durata di un giorno intesa come momento pubblico di riflessione collettiva sui processi.
Potresti esprimere un pensiero che accompagni questa lunga esperienza alla Fondazione Ratti?
Benché io lavori in Inghilterra, inaspettatamente ho sempre riscontrato molto interesse per il mio lavoro in Italia e lo apprezzo molto. In passato ho lavorato per la Sonia Rosso Gallery a Torino mentre attualmente sono con Supportico Lopez. Forse è una questione di sensibilità o di familiarità con alcuni tipi di processi con i quali hai stabilito una connessione. E sapere che una parte del mio lavoro ha trovato casa in Italia è profondamente soddisfacente.
‒ Ginevra Bria
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