Intervista a Fabio Troisi, nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Pretoria
Da addetto culturale all’IIC di New York a direttore dell’IIC di Pretoria, in Sudafrica. Fabio Troisi stila un bilancio della sua esperienza nella Grande Mela e anticipa gli obiettivi del nuovo incarico dall’altra parte del mondo.
Innanzitutto raccontaci cosa sei riuscito a fare sino a oggi a New York e soprattutto come sei riuscito a farlo. Perché – da ‘addetto culturale’ dell’Istituto Italiano di Cultura nella Grande Mela – quello che hai fatto e il ruolo che ti sei costruito non è molto comune…
Non so esattamente cosa sono riuscito a fare, o forse non sono in grado di spiegarlo compiutamente; posso affermare con sicurezza di aver sempre interpretato il mio ruolo con passione, di aver collaborato in modo proficuo ed efficace con tutto lo staff dell’Istituto, con i colleghi, con i direttori dell’IIC, con i consoli generali e i vice-consoli, di aver sempre cercato di rendere l’Istituto un interlocutore credibile rispetto alle grandi istituzioni culturali con cui ci siamo trovati a lavorare.
Se devo proprio evidenziare un aspetto, credo di essere riuscito a creare una “rete” tra gli artisti e i vari operatori culturali italiani in città. È uno dei compiti ancora riconosciuti agli Istituti Italiani di Cultura: senza falsa modestia penso che, lavorando con dedizione sul territorio, siamo riusciti in questi anni a soddisfare tale esigenza.
Cosa ti mancherà di più di New York?
Tantissime cose, ma sicuramente la scena artistica e culturale della città mi ha dato moltissimo umanamente e professionalmente; mi mancherà. Non è facile passare da una vita professionale fatta di oltre duecento eventi l’anno a una realtà sicuramente più “slow”. Tutti si lamentano dei ritmi newyorkesi e dell’eccessiva quantità di cose che avvengono in città; la verità è che alla fine nessuno ne può più fare a meno.
Ora un nuovo inizio di carriera. Da addetto culturale a New York a direttore dell’IIC di Pretoria. Come cambierà la tua posizione, proprio in termini di responsabilità e ruolo?
Il ruolo di direttore di IIC attribuisce una responsabilità completa nei confronti del budget, della gestione dello staff e delle iniziative dell’Istituto, tutti aspetti che a New York ho sempre “condiviso” con i direttori e i colleghi. A Pretoria avrò oneri e onori, in un Istituto competente per l’intero Sudafrica e oltre. Le responsabilità saranno senza dubbio maggiori, la visibilità forse minore, anche se nei prossimi anni ci saranno sicuramente grandi opportunità.
New York ‒ Sudafrica. Sembrano i due estremi. Hai scelto tu o le dinamiche ministeriali in qualche misura obbligano a questi cambiamenti? E, se hai scelto tu, perché hai scelto proprio il Sudafrica?
Dopo oltre cinque anni a New York avevo bisogno di una sfida completamente diversa. Nel nostro lavoro siamo “destinati” a cambiare sede dopo un certo numero di anni e per me la priorità era trovare stimoli nuovi, non scegliere una sede che fosse una copia “sbiadita” della precedente. L’Africa è un continente che mi ha sempre profondamente attratto, che ritengo abbia risorse incredibili e orizzonti ancora in gran parte inesplorati per quanto riguarda la cultura italiana. In questo momento, nella mia vita professionale e personale, non potrei immaginare una destinazione più stimolante.
“Credo di essere riuscito a creare una “rete” tra gli artisti e i vari operatori culturali italiani in città. È uno dei compiti ancora riconosciuti agli Istituti Italiani di Cultura”.
Sei in partenza per Pretoria. Cosa ti aspetti di trovare?
Un Paese immenso, ricco di opportunità, il luogo in cui sono stati rinvenuti gli esemplari di ominidi più antichi (la “culla dell’umanità”) e il primo insediamento europeo stabile nell’Africa Subsahariana; inoltre, l’unico esperimento di società fondata sulla segregazione razziale istituzionalizzata nell’era moderna, che negli ultimi venticinque anni sta cercando faticosamente di costruirsi una nuova identità fondata proprio sulle diversità e sulle contaminazioni tra le comunità, negate sotto il regime dell’apartheid. La cultura svolge un ruolo primario ed essenziale in questo processo: basta guardare alla quantità e qualità di festival, manifestazioni, spazi artistici che continuano a nascere dal basso in tutto il territorio.
Peraltro non ti occuperai solo del Sudafrica ma anche di altri territori…
Sì: la Namibia, il Madagascar e altri piccoli territori. Paesi in cui la cultura italiana è ancora in gran parte ignota, ma che proprio per questo presentano opportunità incredibili.
Quali aspetti e modalità di New York replicherai anche in Sudafrica? Dopo aver reso grande il ‘Premio New York’, farai un ‘Premio Sudafrica’?
Dopo cinque anni, posso dire con certezza che il Premio New York è l’iniziativa di gran lunga più importante che l’Istituto Italiano di Cultura di New York realizza, sia in termini di impatto a medio-lungo termine che in senso strettamente culturale. Creare un programma stabile di residenze per artisti italiani in Sudafrica è una delle mie priorità, su cui stiamo facendo delle riflessioni insieme agli interlocutori istituzionali; non so ancora se sarà sotto forma di Premio o se avrà un’altra configurazione, ma sono convinto che debbano esistere degli spazi per artisti italiani che desiderino scoprire la realtà sudafricana e confrontarsi con questa scena.
Qual è la situazione culturale del Sudafrica a oggi? Su quali aspetti pensi di intervenire nello specifico?
È un Paese vivacissimo, che ha avuto due vincitori di Premi Nobel per la Letteratura negli ultimi trent’anni; artisti riconosciuti internazionalmente come grandi maestri, oltre che protagonisti della scena contemporanea più recente; alcuni tra i più grandi talenti della scena operistica attuale, del jazz e della musica sperimentale; per non parlare della danza e delle arti performative in generale.
Sicuramente, penso sia da evitare qualsiasi approccio che possa essere interpretato come neo-coloniale o eurocentrico; la cooperazione culturale deve necessariamente essere fondata sul dialogo, stimolare il confronto e la crescita attraverso la ricerca di un terreno o di un orizzonte comune.
Cosa credi che la cultura italiana possa portare al territorio in cui ti troverai?
Non solo come cultura italiana, ma come “sistema” Italia penso che possiamo dare un contributo importante alla realtà africana contemporanea. Non a caso (è un’anteprima), il 2019 sarà l’Anno della Cultura Italiana in Africa, segno che anche da parte della politica è riconosciuto un interesse fondamentale nei confronti dell’intero continente. Per quanto riguarda il Sudafrica in particolare, posso dare qualche numero: nel 2016 l’import dall’Italia è cresciuto del 15% circa, il turismo verso l’Italia del 10%; in tutto questo, la cultura (anche intesa in senso lato) ha un’importanza essenziale. La nostra presenza deve valorizzare tutto questo e stimolare ulteriori scambi e arricchimenti reciproci.
“Penso sia da evitare qualsiasi approccio che possa essere interpretato come neo-coloniale o eurocentrico; la cooperazione culturale deve necessariamente essere fondata sul dialogo”.
Solitamente i direttori degli IIC danno la loro linea all’istituzione. Chi è interessato alla letteratura dirigerà un istituto più letterario, chi alla poesia, chi al teatro e così via. Possiamo dire che l’IIC di Pretoria sarà tra quelli più orientati alle arti visive?
Molto dipende anche dal territorio in cui gli Istituti si trovano, non solo dalle “inclinazioni” dei singoli responsabili. Sicuramente, per quanto riguarda il Sudafrica, arte contemporanea, design, arti performative, musica, sono i settori che presentano maggiori opportunità di dialogo e di ricezione da parte delle comunità e del pubblico locale. Senza dimenticare il settore enogastronomico, su cui recentemente si sta puntando molto e che presenta interessanti opportunità anche in Africa.
Che caratteristiche ha il nostro Istituto in Sudafrica? Ha uno spazio espositivo? È dotato invece solo di uffici?
Purtroppo non abbiamo spazi espositivi, né sale per eventi o conferenze. È sicuramente un limite strutturale, ma allo stesso tempo un’opportunità: saremo costretti a confrontarci con le istituzioni locali, a proporre collaborazioni e partecipazioni che dovranno necessariamente risultare interessanti e stimolanti per il pubblico e gli operatori; in fondo, questa necessità si accorda con la prospettiva del confronto e del dialogo cui accennavo.
Provi ad anticiparci i primi provvedimenti e i primi progetti che hai in mente?
Per quanto riguarda l’anno in corso, vorrei concertarmi sulle iniziative “regolari” realizzate dalla rete: Settimana della Lingua Italiana, Settimana della Cucina, Giornata del Contemporaneo, cercando di “tastare il terreno” delle collaborazioni già stabilite e di quelle ancora da stabilire; inoltre, esiste un progetto europeo su cui stiamo lavorando con la rete EUNIC, e un altro progetto sull’Opera in uno spazio “insolito”. Inoltre, cercherò di espandere i corsi di lingua italiana realizzati dall’Istituto. Poi, come accennato in precedenza, nel 2019 avremo modo di divertirci con l’Anno della Cultura Italiana in Africa. Ci sarà il tempo per riparlarne…
Chiudiamo con una tua riflessione sugli Istituti Italiani di Cultura in generale. Cosa bisognerebbe cambiare, implementare, modificare per rendere questo strumento davvero efficace? Oggi siamo probabilmente a metà del guado: si fa molto, ma si potrebbe fare molto meglio.
Quello che ancora manca, purtroppo, è una visione “politica” sul ruolo degli Istituti da parte del centro, una progettualità a medio-lungo termine sulla promozione della cultura italiana all’estero. Gran parte di quello che gli Istituti fanno oggi (ed è moltissimo) è frutto del lavoro individuale dei miei colleghi, grandissimi professionisti e veri servitori dello Stato, oltre che persone realmente appassionate del proprio lavoro.
– Massimiliano Tonelli
https://iicpretoria.esteri.it/iic_pretoria/it/
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