Scrivere per le strade. Intervista a Mister Caos
Parola a Dario Pruonto, in arte Mister Caos, autore dell’intervento site specific sulla facciata del caffè letterario Walden di Milano.
“Scrivo poesie perché non so esprimermi a parole”: abbiamo intervistato Dario Pruonto, in arte Mister Caos. Artista e poeta di strada che opera da anni a Milano, è ora presente sulla facciata di Walden con versi semplici eppure capaci di raccontare lo spirito del luogo.
Ti definisci artista e poeta: possiamo dire che con quello che fai trasformi quello che sarebbe un atto vandalico in un atto di bellezza?
Sì, possiamo dirlo. Perché da una parte è vero che scrivo sui muri, ma in realtà quello che faccio è poesia di strada. Cioè scrivo poesie, ma invece di pubblicare un libro scelgo un supporto diverso. E non sono l’unico: esiste un vero e proprio movimento, anche se in fase embrionale, che porta avanti progetti di questo tipo quasi esclusivamente in Italia. Le sue radici sono antiche, potremmo dire che la poesia di strada si trova a metà fra la trasgressione dei graffiti e la volontà di interconnessione della Street Art. È semplicemente uno strumento per veicolare dei messaggi, che nel mio caso sono sempre site specific e coerenti con il luogo in cui si trovano. Il contesto è una priorità, proprio per il mio voler mettere in connessione un luogo e le persone che lo frequentano.
E all’interno di questo movimento più esteso, come nasce Mister Caos?
Il nome “caos” nasce quando avevo circa quindici anni, legato all’esigenza di trovare un nickname, una tag che mi contraddistinguesse e allo stesso tempo che mi nascondesse. Nasce da un tipico disagio adolescenziale, quindi, da un tentativo di dare il nome a quello che avevo dentro. Poi questo “caos” cresce affascinato dalla Street Art e sboccia nemmeno troppo tempo fa, alla fine del 2012, nella periferia di un paesino vicino a Milano. Un giorno, dopo un avvenimento di stampo mafioso nel quartiere in cui vivevo, ho sentito l’esigenza di scrivere su dei volantini quello che pensavo. Sentivo il bisogno di dire la mia, ma soprattutto sentivo il bisogno di creare un dibattito che non scadesse nel banale.
La voglia di esprimersi e allo stesso tempi di mettersi in discussione, di creare un incontro: hai modelli per quello che fai?
Io non ho mai fatto studi artistici, sono sempre stato profondamente appassionato di sport e sono laureato in scienze motorie. Mi sono avvicinato all’arte da autodidatta, andando a cercare altri interpreti di ciò che io per primo sentivo. In realtà li ho trovati un po’ ovunque, anche se ovviamente non potevo non rimanere affascinato da grandi figure come Banksy, ma anche dalla poesia visiva italiana: sono molto legato a Isgrò, per esempio. Ma ancora non posso che guardare alla natura provocatoria del Dada e alla fine dei conti all’immenso patrimonio di scrittura murale che accompagna la storia dell’umanità fin dalle sue origini.
Hai deciso di lavorare per strada, di utilizzare un linguaggio il più possibile semplice e preciso per veicolare i tuoi messaggi e lasciarli alla portata di chiunque, sperando che le tue parole non siano sterili ma diano vita a un dibattito, un confronto. Eppure siamo circondati quotidianamente da un utilizzo del linguaggio semplice e comprensibile finalizzato a parlare alla pancia, a ridurre ogni possibilità di ragionamento. Come ti differenzi, come trovi un equilibrio pur rimanendo fedele alla strada?
Trovare un equilibrio è la parola giusta: ogni volta che scrivo qualcosa non uso un linguaggio semplice, uso un linguaggio preciso. Spostare un solo articolo, scegliere una parola al posto di un’altra significa a volte veicolare un messaggio diverso. Ogni tanto penso davvero di essere paranoico. E poi prima di scrivere studio. Ogni opera non nasce casualmente in un luogo, ma cerco sempre di parlare del e con lo spazio in cui mi trovo.
Quale iter creativo segui?
C’è sempre una lunga fase di ricerca alle spalle. E poi comincia una fase di accostamento, in cui devo trovare l’equilibrio perfetto fra ogni espressione, che dev’essere allo stesso tempo mirata, precisa e capace di parlare a tutti. È questo il bello e il brutto della strada: che è una gogna. Sei nudo, sei esposto al giudizio di tutti, ma alla fine è proprio quello che cercavo. È il motivo per cui non ho mai voluto scrivere un libro: perché non volevo chiudere il mio pensiero in un posto o in un luogo in cui magari nessuno lo avrebbe visto e condiviso. Volevo trovare un modo per raggiungere molte più persone, e questo è paradossale, perché in realtà sono estremamente timido. Come dico sempre: scrivo poesie perché non so esprimermi a parole. Fare poesia di strada mi permette di mettermi in gioco in prima persona e di attivare il pubblico anche diversissimo che viene a contatto con la mia opera. Come se creassi una piccola comunità.
E questa dimensione comunitaria è fondamentale nell’opera che occupa la facciata di Walden: NOI. Una poesia semplicissima: “siamo sinergia di sinapsi libera dentro corpi differenti” che però riesce a cogliere perfettamente lo spirito del locale. Ci racconti come nasce?
L’opera nasce dall’incontro fra me e Simona Cioce, la curatrice che mi ha invitato. Devo ammettere che all’inizio ero un po’ spaesato, ma dopo aver letto i libri di Leonardo Caffo, filosofo e cofondatore di Walden, ho capito che non mi trovavo a operare in un locale qualunque e ho cercato, come sempre, di dare un’espressione alle idee e allo spirito che lo animano. Ho scelto una vetrofania e ho scelto soprattutto di coinvolgere il pubblico chiedendo di riempire con parole che gli appartenessero le lettere di cui ho disegnato solo il contorno. Perché volevo qualcosa che in qualche modo coinvolgesse tutti, arrivasse a tutti, ma che non fosse affatto semplice o scontato, anzi.
Come hai scelto le parole?
Le parole sono scelte con estrema pesantezza. Fondamentale è stata una frase del libro Fragile Umanità di Caffo che mi ha particolarmente colpito. Diceva che siamo fatti tutti di una stessa sostanza, tutti estremamente connessi. Quindi ho scelto di utilizzare la parola “sinapsi”, che è il collegamento per eccellenza, e “sinergia” che all’idea di collegamento affianca quella di collaborazione per un obiettivo comune. Tutta questa energia libera dentro corpi differenti, dove i corpi differenti siamo, appunto, noi e soprattutto dove la differenza smette di essere un limite. Tutto questo viene realizzato con mezzi poverissimi ed estremamente accessibili, come pennarelli ad acqua e gessetti, perché volevo che il noi fosse davvero aperto a tutti, che tutti potessero partecipare. E non a caso i primi partecipanti, i primi a essere veramente espressione di energia libera dentro il corpo delle parole, sono stati i bambini.
‒ Valentina Avanzini
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