Art Basel Cities. Si comincia da Buenos Aires. Intervista con Cecilia Alemani

La rentrée dell’arte contemporanea quest’anno è all’insegna del Sudamerica. Dal 2 al 4 settembre, infatti, ci sono le giornate di opening della Biennale di San Paolo in Brasile. E dal 6 al 12, a Buenos Aires, esordisce il nuovo format Art Basel Cities. A inaugurarlo, il progetto “Hopscotch” ideato da Cecilia Alemani. Tutti i dettagli ce li siamo fatti raccontare dalla curatrice italiana di stanza a New York.

Art Basel Cities in brevissimo.
È un’iniziativa lanciata da Art Basel. Si comincia con Buenos Aires ma l’idea è di replicarla in futuro in altre città. L’idea è di “rivitalizzare” la scena artistica di alcune metropoli nel mondo che per ora non fanno parte della mappa globale dell’arte contemporanea, ma che hanno già una potenzialità e una scena artistica exciting e attiva.

Chi e come sceglie le città su cui intervenire?
Le città fanno un’application, non è Art Basel a decidere a tavolino. Sono anni che moltissime realtà chiedono alla fiera di aprire nella propria città, perché vedono l’effetto Miami. Se pensi a com’era Miami vent’anni fa e a com’è adesso, l’impatto culturale ed economico – al di là della settimana di fiera – è stato incredibile.

Art Basel, come fiera, non ha intenzione di andare in altre città?
Sono già in tre continenti, con gli appuntamenti di Basilea, Miami e Hong Kong. Quindi hanno sempre detto di no alle proposte.

L’idea di Art Basel Cities a chi è venuta?
A Patrick Foret, che è il business initiatives director di Art Basel. Lui ha pensato che quelle città in realtà non volessero la fiera in sé, ma tutto quello che le gira attorno: le collezioni private che aprono al pubblico, i musei e le gallerie che organizzano le loro mostre più importanti in quei giorni, in generale l’effervescenza che gravita intorno alla fiera. Togliendo la fiera.

Adriana Minoliti, Oscura conjetura, 2009. Courtesy of the artist

Adriana Minoliti, Oscura conjetura, 2009. Courtesy of the artist

Come funziona, di fatto?
Sono state create partnership con alcune città, partnership a lungo termine, per un periodo che varia a seconda della città. Anche le modalità di attivazione cambiano a seconda della realtà specifica su cui si interviene.

Nel caso di Buenos Aires?
Io curo una settimana di arte pubblica nella città. Ma al di là di quei giorni, ci saranno altri momenti e altre modalità per coinvolgere la scena artistica locale durante tutto l’anno. Già a novembre abbiamo fatto un soft launch con molte conversazioni e masterclass, e anche durante arteBA, la principale fiera d’arte contemporanea di Buenos Aires.

A settembre cosa succederà?
Sarà il culmine della relazione fra Art Basel e Buenos Aires. La mostra sarà un itinerario attraverso gli spazi pubblici della città e ci saranno altri talk e conversazioni.

Il format si replicherà negli anni successivi?
La relazione proseguirà anche il prossimo anno ma non è detto che le date e le modalità saranno le stesse. Non è come una Biennale, dipende dalle necessità del committente, che in questo caso è la città di Buenos Aires.

Parliamo dei committenti: il primo interlocutore è istituzionale e poi si costruisce la rete di relazioni pubbliche e private?
La città mette la disponibilità e i fondi, Art Basel mette il marchio e l’expertise.

Ah, i fondi provengono dalla città?
Sì, in pratica la città è il nostro “cliente”. È una relazione di consulenza. Però l’idea è che, oltre a quanto noi produciamo a livello di contenuti, tutti i musei, le gallerie, gli spazi non profit facciano sinergia intorno a questo evento, in modo che il visitatore non veda soltanto quello che Art Basel cura, ma visiti le altre realtà e le mostre organizzate in quel periodo.

Barbara Kruger, Empatía, 2016. Courtesy of the artist

Barbara Kruger, Empatía, 2016. Courtesy of the artist

Come sono i rapporti con le fiere locali? Come l’ha presa arteBA?
Art Basel non ha nessuna intenzione di aprire a Buenos Aires e arteBA è uno dei partner di Art Basel Cities. Quindi i rapporti sono buonissimi. Come ti dicevo, abbiamo organizzato delle conversation proprio ad arteBA e durante il soft launch di novembre la fiera ha costruito l’evento arteBA focus, una sorta di pop up con venti gallerie. Fra l’altro arteBA è una bella fiera, con una discreta presenza internazionale, diverse gallerie locali molto buone, varie sezioni curate. È una fiera piccola, con una sessantina di gallerie, ma dal 2014 – l’ultima volta che l’ho visitata prima di quest’anno – è migliorata molto.

Parliamo del tuo ruolo: sei all’interno dello staff di Art Basel Cities in generale o ti occupi solo di Buenos Aires?
Per adesso faccio Buenos Aires. Nel frattempo hanno fatto l’application 30-40 città, ma al momento non è stato reso pubblico l’esito.

Con quali criteri si scelgono i “vincitori”?
Art Basel decide a livello strategico, prima ancora che a livello di contenuti, che tipo di relazioni avere. Ad esempio, a Buenos Aires si lavora sull’arte pubblica, ma non è detto che sarà così nella prossima città.

È un format modulare.
Esatto. Buenos Aires è particolarmente ricettiva nei confronti dell’arte pubblica. Io sono felicissima perché, fra l’altro, ho potuto utilizzare delle venue inedite e splendide. Ma, se si facesse a New York – cosa che non avverrà mai! –, magari ci si focalizzerebbe sulla performance.

Ricapitolando: andare in città che hanno già una scena artistica strutturata, stimolare la sinergia e attrarre l’attenzione internazionale sfruttando il marchio Art Basel. È corretto?
È proprio così. Buenos Aires è una città fantastica, ha una scena artistica bellissima ma… è lontana! Sono undici ore di volo da New York, per capirci. Non avendo una biennale, come invece ha San Paolo, non avendo una grossa fiera visitata con regolarità dai collezionisti globali, finora non è riuscita a entrare nella mappa di cui ti dicevo. L’obiettivo di Art Basel Cities è quindi a medio termine: magari fra cinque anni non ci sarà più bisogno di Art Basel e a Buenos Aires sarà nata una biennale, un festival, un gallery weekend…

Cecilia Alemani. Photo Timothy Schenck

Cecilia Alemani. Photo Timothy Schenck

Secondo te avrebbe senso che una città come Roma partecipasse alla selezione?
Potrebbe avere un senso, anche se l’Europa è un’area complicata, poiché le distanze sono decisamente minori. Però avrebbe un senso, visto che stanno aprendo molte gallerie internazionali e la scena artistica è interessante. Sicuramente non avrebbe senso se lo facesse Milano, innanzitutto perché è troppo vicina a Basilea.

Altre città italiane che vedresti bene in questo contesto?
Palermo e Bari, ad esempio. La cosa più importante è che la città abbia voglia di intraprendere questa avventura, perché significa produrre un evento gigantesco con lo standard di qualità di Art Basel.

E poi bisogna avere un progetto almeno a medio termine a livello di amministrazione locale.
Certo, devi produrre l’evento per almeno un paio d’anni, altrimenti non è sostenibile.

Torniamo a Buenos Aires. Raccontaci cosa vedremo nella capitale argentina.
Il titolo della mostra è Hopscotch, che è sia il gioco che fanno i bambini [campana o settimana, N.d.R.], sia il titolo di un celebre romanzo di Julio Cortázar. È un libro interessante più per la struttura che per il contenuto: lo puoi leggere linearmente o saltando da un capitolo all’altro. Mi piaceva l’idea di questa struttura sperimentale ed è una metafora di come lo spettatore potrà visitare la mostra. Non una mostra di tipo museale, quindi, dove le sale si susseguono con una narrativa preordinata, ma un percorso individuale da uno spazio espositivo all’altro, leggendo la città come una sorta di piedistallo per l’arte.

Quanti sono gli artisti e come hanno lavorato?
Gli artisti sono diciotto [Eduardo Basualdo, Pia Camil, Maurizio Cattelan, Gabriel Chaile, Alex Da Corte, Santiago de Paoli, Narcisa Hirsch, David Horvitz, Leandro Katz, Barbara Kruger, Luciana Lamothe, Ad Minoliti, Eduardo Navarro, Alexandra Pirici, Mika Rottenberg, Mariela Scafati, Vivian Suter e Stan VanDerBeek, N.d.R.] e hanno lavorato in maniera specifica sugli spazi che occupano. Sono quindi quasi tutti lavori nuovi, realizzati da artisti per un 70% argentini e per il restante 30% internazionali.

Alex Da Corte. THƎ SUPƎRMAN. Installation view at Kölnischer Kunstverein, Colonia 2018

Alex Da Corte. THƎ SUPƎRMAN. Installation view at Kölnischer Kunstverein, Colonia 2018

Spazi che sono diffusi in tutta la città o ti sei concentrata su un’area specifica?
Ci siamo concentrati su spazi che costeggiano il Rio de la Plata, un fiume che sembra un oceano – non si vede l’altra sponda! Il mio modello è Münster, ma Buenos Aires è una città gigantesca e bisognava selezionare un’area.

Perché hai scelto proprio il lungofiume?
Quando Le Corbusier visitò Buenos Aires negli Anni Venti, disse che la città era costruita voltando le spalle all’acqua. Era un’area industriale, portuale. L’esatto contrario delle città europee, che invece si affacciano sul fiume. Così ho deciso di concentrarmi su tre aree che corrono lungo il fiume, dove si alternano spazi industriali [Puerto Madero, N.d.R.], quartieri tradizionali di immigrazione come La Boca, fino a Palermo-Recoleta, che è proprio accanto all’acqua. Un tour che puoi fare tranquillamente in bicicletta.

Queste aree le hai scelte tu o è stata l’amministrazione a puntare su una zona precisa?
La scelta è stata mia, anche se la città sta puntando molto su La Boca per farlo diventare il “quartiere dell’arte”. Mi hanno dato carta bianca. Confrontandomi con gli artisti, in molti hanno espresso il desiderio di esporre a Costanera, la riserva ecologica che è stata costruita negli Anni Cinquanta sulla discarica. Ma il prossimo anno magari cambieremo zona.

Che tipo di spazi espositivi sono?
Si va da spazi pubblici aperti come parchi e piazze a musei di curiosità che non sono dedicati all’arte contemporanea. Questo non perché non ci siano musei, ma perché volevamo dare la possibilità di utilizzare anche spazi insoliti. La scena locale è buona ma abbastanza tradizionale, non esiste quasi il guerrilla style. E molti degli stessi abitanti di Buenos Aires non sono mai stati in quei luoghi.

Qual è stata la priorità a livello di budget?
In fase di studio preliminare ci siamo confrontati con gli artisti ed è emerso che il problema principale è la produzione. Abbiamo quindi voluto dare agli artisti le risorse necessarie per produrre nuovi lavori.

L’obiettivo generale del progetto?
Da un lato, mettere in contatto gli artisti e la scena locale con gli operatori internazionali. Dall’altro, introdurre un nuovo formato per inserire l’arte a Buenos Aires.

Chiudiamo con un ritorno in Italia. Dopo il tuo Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, adesso tocca a Milovan Farronato. Cosa ne pensi della nomina e delle polemiche imbarazzanti che si sono scatenate nei giorni immediatamente successivi alla nomina stessa?
Sono contenta per Milovan, è un collega che ammiro e apprezzo. Gli attacchi alla sua persona sono stati vergognosi. Quel che dobbiamo fare è aiutarlo affinché disponga delle condizioni necessarie per portare a termine un buon lavoro. Perché la nomina non basta, il difficile inizia adesso! Detto questo, il merito è anche del Ministero.

In che senso?
Finalmente è riuscito a mettere in moto una procedura standardizzata e di alto livello. Ognuno dei dieci curatori selezionati avrebbe potuto fare un buon padiglione. Federica Galloni e il team del Ministero hanno fatto un lavoro ammirevole. Vedremo cosa succederà con il nuovo ministro. Innanzitutto se il ministro sarà ancora Bonisoli, e poi se verrà mantenuto questo metodo.

Marco Enrico Giacomelli

www.artbasel.com/cities

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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