Imparare dai “devianti”. Intervista con Dora Garcia
Abbiamo incontrato Dora Garcia nel mese di luglio a Palermo, durante la Summer School da lei tenuta al Caffè Internazionale. Così è nata questa conversazione a tutto campo sul suo lavoro, sulle fonti di ispirazione, sul ruolo dell’insegnamento…
La prima volta che ho visto un tuo lavoro era il 2013 alla Giudecca, dove si proiettava The Joycean Society, nell’ambito della Biennale d’Arte di Venezia. Mi ricordo di essere stata rapita da questa comunità di lettori, la Zurich Joyce Foundation, che si riunisce settimanalmente per leggere insieme l’ultima opera di James Joyce, Finnegans Wake (1939). I lettori sono completamente concentrati nel compito di (re)interpretare un libro così difficile ed enigmatico. I loro commenti critici durante le sedute di lettura in realtà sono riscritture che durano sette anni prima di iniziare una nuova lettura. Cosa ti ha spinto a filmare le loro riunioni? E come sei venuta a conoscenza della loro esistenza?
Undici anni! Impiegano undici anni per tornare allo stesso punto del libro da dove erano partiti! È così che li ho trovati: stavo filmando a Trieste The Deviant Majority sull’eredità di Franco Basaglia e mi sono letteralmente imbattuta in una statua di Joyce posta su un ponte, tra l’altro un ponte molto bello della città. Mi sono ricordata allora che “il suo Ulisse era nato a Trieste” e ho cercato le persone che organizzavano a Trieste la Joyce Summer School, John Mccourt e Laura Pelaschiar. Loro mi hanno parlato di Fritz Senn e del gruppo di lettori di Zurigo, un gruppo antigerarchico, ossessivo e fedele: dopo alcuni tentativi andati a vuoto, un giorno che ero a Zurigo ho deciso di bussare alla porta della sede del gruppo. E mi ha aperto Fritz Senn in persona. Ho deciso allora di filmare le loro letture perché era una delle cose più incredibili alle quali avessi mai assistito, la lettura di Finnegans Wake come la facevano loro; e perché, per me, la situazione nel suo insieme era l’archetipo di quello che è un’opera d’arte e di come funziona.
Non è un compito facile riassumere la tua opera in una conversazione. Spaziando dalla scrittura all’installazione filmica, sino alla performance, la tua ricerca è particolarmente concentrata sulla letteratura e sulla narrazione, fonti di ispirazione importanti in termini di strategie immaginarie che coinvolgono lo sguardo dello spettatore. Oltre a James Joyce, ti sei ispirata ai racconti di Franz Kafka, a Robert Walser, J. G. Ballard, Antonin Artaud, Samuel Beckett, come anche allo psichiatra Franco Basaglia, che hai appena citato. Tutti dissidenti e considerati marginali dalla critica ufficiale del loro tempo. Per te ‘marginale’ è una parola vicina a ‘inadeguato’? È forse la condizione dell’artista? Anche quando si è diventati famosi e si fa parte dell’élite del mondo dell’arte?
Non so cosa sia l’élite del mondo dell’arte, non l’ho mai incontrata. Sono andata ad alcune cene con famosi collezionisti, erano molto gentili e quelle cene erano pieni di artisti che come me apprezzavano il buon cibo offerto gratuitamente. Non mi sono mai sentita, nemmeno lontanamente, parte di qualcosa di simile all’élite del mondo dell’arte. Sento di appartenere ai lavoratori del mondo dell’arte – ma non siamo un’élite –, lavoriamo da soli e insieme agli altri, come tutte le persone, ogni giorno e per tante ore. Penso che la marginalità dell’artista sia una condizione interiore indipendente dal suo status economico e sociale. La marginalità, senza dubbio una nozione con un legame molto forte con l’esilio e l’inadeguatezza, è, credo, inerente all’essere artista. Nel momento in cui decidi di essere un artista, ti sei messo ai margini – il solo luogo dal quale hai una buona visione del centro. Wolfgang Hilbig lo ha descritto in modo mirabile quando ha scritto nel suo racconto Ich (1993) che il momento in cui ha deciso di diventare scrittore è stato come se tutti avessero cominciato a parlare in una lingua straniera e come se ogni scena di cui aveva fatto parte fino a quel momento la stesse ora vivendo dentro casa, anche quando era fuori, scrutandola attraverso la finestra. Credo che il momento in cui si diventa artisti si diventa degli outsider, senza la paura di essere soli, perché in verità molte persone sono lì fuori con te.
Sono stata di recente a Barcellona e nella galleria con la quale tu collabori ho acquistato il catalogo della tua recente retrospettiva al Reina Sofia a Madrid, il cui titolo di nuovo mi ha rapito: Second time around which is in fact the first. Rapimento che è continuato con la seconda frase di Jorge Jinkins, che forse funge da sottotitolo “Chiunque abbia familiarità con la temporalità del trauma e con la teoria della repressione sa che in psicoanalisi la seconda volta è nei fatti la prima”. Nel tuo lavoro lo spettatore è sedotto da questi continui riferimenti all’intimità dell’esistenza, a qualcosa di nascosto ma sempre presente, che appartiene a tutti noi e a ciascuno di noi in particolare. Con questo titolo vuoi rappresentare la condizione umana che oscilla tra fragilità della mente e potenziale della creatività?
Lo psicoanalista argentino Jorge Jinkis ha scritto questa frase in un testo sull’opera del suo collega Oscar Masotta, così ha naturalmente un significato psicoanalitico. La ripetizione, elemento centrale della mostra, ha il senso di ripetere un’azione, come sostituto della memoria, come dice Freud nel testo Ricordare, ripetere e lavorare (Ulteriori raccomandazioni sulla tecnica della psicoanalisi II): “Così, poiché ripetiamo quello che rifiutiamo di ricordare, nel momento in cui diventiamo consapevoli del fatto che è una seconda volta, in realtà è la prima, perché la prima in realtà non è mai avvenuta, sepolta nella memoria dello schermo”. Era la mia seconda volta al Reina Sofia (la prima era stata una piccola mostra all’interno di un programma per giovani artisti nel 2005) e La Segunda Vez è anche il titolo di un racconto di Julio Cortázar dove la seconda volta si riferisce alla seconda volta che sei chiamato a comparire davanti alla polizia, il che equivaleva in realtà a scomparire, cioè a morire, nel periodo della dittatura militare argentina. In questo senso, sì, la seconda volta si riferisce alla fragilità dell’esistenza (che può essere cancellata in un secondo) ma anche alla nozione che ci sono dei segni attorno a noi che indicano eventi terribili, il futuro, ma ci rifiutiamo di vederli, di interpretarli… e così la storia si ripete.
Molti dei tuoi lavori sfidano il concetto di norma e di devianza. In quale modo diventano fonte di ispirazione?
Sin dall’adolescenza sono stata seguace di quella che veniva definita controcultura e degli autori “maledetti”, amavo le storie dei consumatori di oppio come Thomas de Quincey, Burroughs, Verlaine e Rimbaud, queer, autori omosessuali, insomma stili di vita non normati, diremmo oggi. Avevo un’inclinazione naturale per quell’area culturale. Più tardi ho iniziato a interessarmi alle esperienze psichiatriche, quando ho notato che molti miei “idoli” come Artaud e Walser erano stati per lunghi anni internati in ospedali psichiatrici. Ed ero particolarmente toccata dalla Lettera ai direttori degli ospedali psichiatrici di Artaud pubblicata nella Révolution Surréaliste e, quando molti anni dopo ho iniziato a leggere Basaglia, mi colpì il fatto che la lettera era uno dei suoi testi di riferimento. Sentivo di condividere, in qualche modo, con Basaglia, senza farne parte in verità, la compassione, l’empatia, la comprensione, per coloro che erano ritenuti incompatibili con il codice di comportamento del “buon borghese” e per questo costretto all’esilio, imprigionato, controllato. Mi sembrava una lotta giusta da condividere, avendo sofferto a mia volta di etero-patriarcato che cercava di impormi un certo comportamento. Quando leggevo Basaglia e lavoravo con i suoi materiali, ero interessata dal punto di vista sociale all’abolizione della legge 180, cioè il concetto di “pericolosità sociale” che echeggia tristemente nella storia della repressione franchista in Spagna. Questo concetto era sufficiente in Spagna per arrestare e torturare comunisti, omosessuali, donne, psicotici, e chiunque non aderisse all’ideale del nazional-cattolicesimo. Così da sempre sono interessata alla cultura deviante e con gli anni ho capito la sua importanza politica.
Nelle tue performance il corpo dell’artista non è mai presente. C’è una precisa ragione per questa assenza?
Sì, sono estremamente timida. Ho sempre voluto fare performance ma riuscivo a lavorarci soltanto se capivo di poter chiedere ad altri di farlo per me. Mi riconosco di più nella qualità di direttore teatrale/filmico, mai come attrice. Odio vedermi dentro il lavoro, non uso mai infatti materiali in cui devo apparire. Mi piace essere quella che guarda, non quella che è guardata.
Mi hai detto che insegni a Ginevra e a Oslo. La tua attività di insegnante è in qualche modo collegata alla tua ricerca artistica? Sono intrecciate?
Sì, molto. Non c’è una distinzione netta. Coinvolgo i miei studenti nei miei progetti. Cerco di motivarli e li aiuto a impegnarsi. Comunque imparo più io dai loro lavori che loro dai miei. Sono costantemente aggiornata culturalmente grazie ai miei studenti. Non potrei immaginare il mio lavoro artistico se non fossi un’insegnante. È un input di cui ho bisogno. Insegno dal 2008 e molti studenti sono ora artisti con i quali spesso collaboro nei miei progetti ma anche io nei loro.
– Maria Rosa Sossai
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