Arte e tecnologia. Paul Thorel a Napoli
“Asservire la qualità tecnologica alla qualità artistica”. Durante la recente presentazione della sua nuova opera al Madre di Napoli, Paul Thorel fa il punto su uso della tecnologia, formazione dalla storia e pratiche virtuose di produzione.
Un flusso inarrestabile, una scia luminosa di movimento e cromia che porta alla coscienza con sorprendente evidenza la funzione naturale, di passaggio e scorrimento, del luogo architettonico in cui sorge, quasi gli fosse appartenuto da sempre.
Passaggio della Vittoria, la nuova opera di Paul Thorel (Londra, 1956) recentemente acquisita dal Madre per il camminamento tra i cortili esterni ‒ a cura di Andrea Viliani con Silvia Salvati ‒ porta avanti la ricerca sul trattamento digitale delle immagini e sulla coscientizzazione dei luoghi tipica del suo autore, con l’aggiunta di una peculiare cromaticità site specific, “alta” e mediterranea.
Ma diviene anche maquette del flusso in ascesa dello stesso museo che, come indicato da Laura Valente, presidente della Fondazione Donnaregina, negli ultimi mesi “ha incrementato il patrimonio della Fondazione Donnaregina di oltre il 70% rispetto agli ultimi tre anni, e ha registrato un incremento del pubblico pagante di oltre il 40%”.
Risultato in armonia con una visione del museo ancor più propulsiva negli ultimi tempi, che lo ha portato anche a far rete con realtà magniloquenti come Pompei, prima con la mostra Pompei@Madre, e poi con la prima delle Pompei Commissions – commissioni di opere che pongono in dialogo arte contemporanea e materiale archeologico normalmente poco fruibile ‒ affidata a John Armleder nella sua retrospettiva 360°, ancora in corso.
PAROLA A THOREL
E tutto ciò forse non a caso si percepisce forte e chiaro anche nelle linee di flusso tratte da centinaia di vedute marine di Thorel, che scelgono in questo episodio site specific la tecnica del mosaico dalle millenarie radici pompeiane, come rivela lo stesso autore: “Culturalmente sono anche un po’ cresciuto qua, dunque sono stato influenzato da sempre da ciò che era presente sul territorio”. Ed ecco perché ‒ continuando il dialogo tra tecniche del passato e del presente già avviato con la riflessione sull’arazzo in Tapestries del 2015 – gli è “venuto più naturale pensare a un mosaico”.
In un racconto aperto, l’artista ci fa entrare nei retroscena interiori e nel dietro le quinte del processo di genesi dell’opera. Cogliendo l’occasione per fare il punto anche sulla sua poetica non di opposizione, ma di integrazione e dialogo tra tecnologia e uso umano, che da sempre disinnesca l’oggettività del mezzo fotografico a favore di un empowerment delle facoltà di percezione e intuizione, per imparare, con Silvia Salvati, a “percepire anziché guardare”. Fino a riferirci della feconda collaborazione con Mutina for Art, produttore dell’opera che ha saputo “recepire le esigenze estetiche” della creazione.
‒ Diana Gianquitto
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