“Per tutta la vita”, il nuovo film di animazione di Roberto Catani
Con la consistenza che possono avere solo i sogni nati in soffitta e disegnati in ore e ore di paziente lavoro sui tetti della città, guardando la dolcezza delle colline marchigiane, è stato creato “Per tutta la vita”, ultimo lavoro di animazione di Roberto Catani che da quando aveva 14 anni divide la sua vita tra Jesi e Urbino e che ha saputo conquistare anche il Festival d’Annecy.
Prodotto da Davide Ferazza per Withstand Film e da Miyu Distribution con il sostegno di Mibac, Regione Marche, ARTE France e CNC Fonds de soutien audiovisual, il film Per tutta la vita di Roberto Catani (Jesi, 1965) è frutto di due anni di lavoro che hanno portato l’artista a produrre oltre 1400 disegni per circa 4 minuti di video con la tecnica del disegno animato.
Di che cosa parla il tuo ultimo lavoro?
È un film sull’abbandono, sulla fine di un tipo di amore, non tanto perché i due si lasciano, ma perché racconta un passaggio: nella vita finiscono un sacco di cose, ma poi ne iniziano altre, si trasformano: la crescita è questa. Ma viviamo in una società dove questo non viene accettato. C’è un famoso proverbio inglese che dice “Non piangere perché è finita, sorridi perché è successa”. La mia intenzione era creare un promemoria sul fatto che le cose possono finire, e non sempre drammaticamente. Considerata l’attualità, in cui i rapporti non si possono terminare perché ne scaturisce quasi sempre una violenza, e c’è una non accettazione di quel passaggio naturalmente doloroso, ho iniziato a pensare che ci sono delle stagioni anche nell’amore, ma c’è chi non accetta che l’amore adolescenziale non ci sia più e non sa vedere cosa c’è di bello nell’amore adulto.
È un messaggio a non preservarsi dalle emozioni, viverle e ricordarle anche se non sono sempre piacevoli, altrimenti ogni cambiamento è percepito come negativo. Ma il tuo non è un film di attualità e denuncia.
Esattamente. La mia non è narrativa di impegno sociale, ma piuttosto un volo sopra le cose, una filastrocca di immagini. Mi piace dare una lettura di certi fenomeni, ma cerco di farlo in modo leggero, senza essere didascalico, non mi piace l’eccessiva chiarezza, altrimenti si toglie ogni possibilità di immaginazione. Invece il mio è un tentativo di entrare in relazione con gli altri, un confronto di esperienze anche emotive, in cui tutti ci si possono ritrovare.
Come nascono i tuoi film?
Tutto parte da un’idea generale e da un’immagine, il più delle volte nasce prima l’immagine da cui costruisco l’idea, ma prevalentemente queste cose arrivano insieme, poi costruisco tutto il film attraverso lo storyboard, ma lascio sempre molto margine per andare fuori, fare delle digressioni. In questo caso sono partito dalla scena in cui l’omino se ne va sulla neve e poi ho inserito tutto ciò che volevo. Ripercorrere la storia dalla fine al suo inizio ha funzionato, ma più che una storia sono riflessioni.
Procedi per analogia, una immagine ne richiama un’altra, e innesca una stratificazione di pensieri che rende l’opera più complessa. È il modo in cui procede il pensiero.
Sì, le cose non sono mai semplici e lineari: volevo raccontare la magia iniziale dell’innamoramento attraverso il coniglio rosso, l’aspetto giocoso che esce dal cilindro, che è presente anche più avanti con i riferimenti al circo, ma anche la stagionalità dell’amore: i passi dell’abbandono scricchiolano sulla neve, in inverno, mentre il pieno della festa è in estate. In realtà tutto è in bilico, è tutto un gioco di equilibrio in cui lui sembra tenere lei ma poi si scopre che in realtà è lei a trascinare i fili della storia; sono acrobati nella vita quotidiana: nell’acqua ci si può immergere come si può annegare, e la sessualità può trasformarsi in una trappola.
Hai impiegato due anni a fare questo film, che cosa è per te la lentezza?
Il film è una sorta di meditazione: con l’immagine comunichi, è importante, è una responsabilità, va pesata come si pesano le parole, in una società di immagini ancora di più.
Quale tecnica hai utilizzato?
È la tecnica del cartone animato: i disegni sono realizzati con gesso e oilbar trasparente e puntasecca. È dagli Anni Novanta che utilizzo questa tecnica con alcune modifiche, soprattutto che riguardano il supporto. L’elemento dei graffi a puntasecca è perché questa tecnica incisoria è da sempre nella tradizione della Scuola del Libro di Urbino, in cui mi sono formato e in cui ho insegnato fino all’anno scorso; il gesso è morbido, sognante, ancora impalpabile; nell’immaginario si può fare un soffio e va via: la leggerezza mi piace nella struttura narrativa, ma anche la tecnica mi aiuta: la sua trasparenza corrisponde al detto/non detto, visto/non visto, mentre dalla consapevolezza della fragilità nasce la forza che abbiamo.
Credo sia fondamentale per questo genere di opere anche il rapporto con la musica. In questo caso i suoni sono di Andrea Martignoni. Come hai lavorato con lui?
Durante la costruzione delle immagini io già immaginavo dei suoni: è il secondo film che faccio con Andrea, per il primo, La testa tra le nuvole, avevo presentato un quaderno pieno di indicazioni sonore. Per questo lavoro ho lasciato maggiore libertà: c’è sempre un confronto, lui è un sound designer, va a sottolineare certi passaggi senza che il suono diventi prorompente rispetto alle immagini. Ma ho sempre lavorato benissimo anche con gli altri musicisti che hanno musicato i miei lavori: David Monacchi, Mario Mariani e Normand Roger, vincitore del premio Oscar per L’uomo che piantava gli alberi.
‒ Annalisa Filonzi
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