Una storia scritta nel legno. Intervista ad Adolf Vallazza
Parola a una delle personalità cardine nel panorama scultoreo trentino. In mostra al Palazzo Assessorile di Cles fino al 23 settembre 2018.
La scultura lignea fa parte della tradizione secolare della Val Gardena. Adolf Vallazza (Ortisei, 1924) è colui che, per primo, ha avuto il coraggio di trasformarla e metterla in contatto con le ricerche artistiche contemporanee. Abbandonata la figurazione negli Anni Sessanta, ha iniziato a sperimentare forme e materiali nuovi, fino ad arrivare alle sculture che l’hanno reso famoso, i Totem e i Troni. Al suo percorso artistico è dedicata la retrospettiva a cura di Gabriele Lorenzoni Adolf Vallazza. Una storia scritta nel legno al Palazzo Assessorile di Cles (Trento): quasi cento opere in un dialogo serrato con gli affreschi cinquecenteschi delle sale del Palazzo storico. Abbiamo incontrato Vallazza nel suo studio e showroom, una foresta di sculture lignee fra le montagne di Ortisei, dove Vallazza lavora ancora con passione.
È una domanda che le hanno già fatto molte volte: quando e come ha iniziato a fare scultura?
Ha ragione, quante volte me l’hanno chiesto! Ho 94 anni, mi avvio ai cento. Sono un uomo che ha vissuto lo scorso secolo, un novecentesco. Ho cominciato con la figurazione, scolpivo figure “classiche”. È ovvio, quello deve essere il punto di partenza. Non si può cominciare dall’astratto, l’astrazione si raggiunge in un secondo momento. Ancora oggi, in questi vecchi legni, faccio delle figure, anche nella mostra a Cles si vedono, sono figure stilizzate e non classiche, che svelano l’origine della mia scultura.
Il figurativo è importante perché insegna il “mestiere”; io dico sempre agli artisti: “Devi saper fare, e poi se hai la fantasia, puoi cambiare”. Molti iniziano con l’astratto, e per me è impossibile, il corpo umano lo devi conoscere, devi entrare in possesso dell’anatomia, conoscere le forme…
Perché anche se la scultura è astratta le proporzioni sono umane, o meglio, a “misura d’uomo”?
Ma certo, il senso dell’armonia e della composizione è fondamentale. Quando lavoro su una scultura non mi fermo finché non sento di aver trovato i giusti volumi, finché non si raggiunge l’armonia. Poi, alle volte, accetto anche le dissonanze, perché anche le dissonanze esistono. Ho delle sculture che tendono da una parte, perché anche l’asimmetria fa parte della simmetria. Ma tutto deve sempre partire dalle proporzioni umane.
Le mie primissime sculture erano classiche, solo più tardi ho trovato la mia strada, a partire da figure umane sempre più stilizzate. Ai tempi [negli Anni Quaranta e Cinquanta, N.d.R.] lavoravo l’ulivo, materiale che poi ho lasciato, perché per me il tronco d’ulivo è già una scultura, e quando lo scolpivo riuscivo solo a rovinarlo. Il materiale va capito e sentito. Usando l’ulivo la natura faceva già tutto e io, come artista, potevo solo peggiorarla. C’erano sculture in ulivo di cui ero soddisfatto, ma il mio bisogno di rispettare la forma e il materiale era più forte.
Che cosa ha fatto, allora?
Ho cercato altro legno e ho trovato legni antichi, come questo [mostra una scultura in legno, N.d.R.] che il mio vicino di casa ha comprato come legno da bruciare. Questo tipo di tavole, che uso dal 1969, sono legni antichissimi, a volte secolari, che vengono dalle case contadine, e più sono vecchi più sono belli. Sono legni che vengono dalle pareti delle stube, che hanno visto la storia, e da artista ti chiedi cosa possano aver sentito, quante generazioni, quanti secoli abbiano vissuto. Quelli che sono stati fuori sono corrosi, consumati. A volte sono mangiati dalle tarme. Altri legni mostrano buchi sulla superficie: sono i segni delle scarpe chiodate dei contadini, che hanno camminato su di loro per anni e anni. Poi c’è il colore, anche quello varia a seconda della loro vita. Ci sono i legni bluastri, che hanno preso la pioggia, e quelli rossi, che sono bruciati dal sole, e poi ci sono i grigi, declinati in tantissime tonalità. Talvolta aggiungo della tempera ad acqua: mai olio, voglio che il colore rimanga il più naturale possibile.
Il legno è una materia che di per sé è povera, ma che è in grado di trattenere la storia.
È il materiale di cui sono innamorato: ho realizzato anche statue in bronzo, nel passato, lavori su ordinazione, ma il legno è rimasto la mia materia d’elezione. È stato il protagonista del mio lungo percorso artistico, nel quale ha avuto una parte fondamentale mia moglie Renata: è stata lei ad aiutarmi all’inizio.
In che modo?
Mi ha incoraggiato, perché io ho cominciato quasi a quarant’anni a dedicarmi solo all’arte, prima ero un artigiano. Facevo statue per le Vie Crucis, crocifissi, sculture religiose della tradizione gardenese. Avevo una ditta con sette operai ed era il mio mestiere per guadagnare: dovevo farlo, dovevo mantenere la famiglia, mi ero costruito una casa grazie a quel lavoro. Ogni settimana, però, mi ritagliavo del tempo per studiare, il sabato, ad esempio, era la mia giornata di studio, quella in cui mi dedicavo alle mie ricerche. Ricordo le prime biennali che andavo a vedere, dopo la guerra. L’astratto è arrivato negli Anni Sessanta, ispirato da Marino Marini, Henry Moore, e soprattutto dal grande Constantin Brâncuși, che è stato il mio maestro per la sua semplicità, la capacità di ridurre i volumi, l’iconografia delle “colonne”, tutti elementi che mi hanno influenzato tantissimo. Però sono rimasto fedele al legno, accentuando la sua natura ruvida, di materiale consunto dal tempo.
Cosa le hanno detto quando ha iniziato a fare scultura astratta qui a Ortisei?
“Era un bravo scultore, faceva le cose classiche e ora… è impazzito” [ride, N.d.R.]. Non mi capivano. Del resto se fai arte la massa devi dimenticarla, per me non è mai esistita. So che non tutti quelli che visitano il mio studio capiscono quello che faccio.
Del resto l’arte è una passione, e devi averla dentro di te. Mio nonno, Josef Moroder Lusenberg, era un famoso pittore gardenese dell’Ottocento, e sono sicuro di aver ricevuto la sua eredità, come un dono di sangue, perché quando ero piccolo nessuno mi ha incitato a seguirlo, eppure io passavo il tempo a scarabocchiare, a disegnare. Io ho trasmesso la mia passione ai miei figli. Ho dedicato tanto, tanto tempo all’arte, sin da giovane, quando mi invitavano a uscire e io preferivo studiare, a casa, perché capivo che si trattava di un mestiere difficile. Disegno era la mia materia preferita, sin dalle scuole.
Nella sua scultura ricorrono i Totem e i Troni. Qual è la loro genesi, il loro significato?
Il Totem è nato per primo, dai legni delle stube assemblati. I Totem hanno spesso una parte centrale molto movimentata, con motivi tipici miei come quelli a intreccio, e intorno la superficie del legno. Il Trono è nato da una suggestione di mia moglie, che vedeva queste sculture lunghe e alte e diceva “sembrano delle spalliere di un trono, prova a trasformare questi Totem in sedie”. Da quel momento, la sedia è diventata uno dei miei temi principali, perché all’arte si unisce la funzione. Ho anche realizzato dei tavoli, chiaramente a modo mio, con il legno vecchio, circondati da Troni che sembrano personaggi.
Il loro aspetto è legato a delle leggende?
Certo, ci sono tantissime leggende nei paesi delle montagne; Karl Felix Wolff le ha raccolte in un libro, Leggende delle Dolomiti. Quand’ero bambino i miei genitori me ne raccontavano tante, da far paura: sai com’era quel tempo lì. Anche se astratte, le mie sculture rispecchiano queste suggestioni. È il mio ambiente, la mia storia che mi ha dà l’ispirazione per la scultura. Del resto l’ispirazione parte dalla vita, e poi ci vuole l’amore, la pazienza di dare tutto il meglio di se stesso.
L’arte è un campo difficilissimo, il più difficile, ma ancora oggi rimane il più bello ed emozionante di tutti.
‒ Sara d’Alessandro Manozzo
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