Pittura, ceramica, scultura. Intervista ad Alessandro Roma
Parola ad Alessandro Roma, protagonista della mostra che inaugurerà al MIC di Faenza il 13 settembre.
Vertigo. Walking on the edge of the tone è la nuova mostra personale di Alessandro Roma. Il MIC di Faenza accoglie un nucleo di ceramiche concepite all’interno del museo e alcune stoffe dipinte. Prosegue così l’indagine dell’artista milanese classe 1977 sulla forma e la struttura intrinseca della pittura e della scultura. Ed è la conferma di un amore, quello per la ceramica. Lo abbiamo intervistato a pochi giorni dall’opening.
Partiamo dal principio. Come nasce questa mostra e come sarà strutturata?
L’incontro con Irene Biolchini, curatrice del MIC è avvenuto nel mio studio più di un anno fa. Da allora abbiamo incominciato a parlare di una nostra collaborazione e ora eccoci a presentare la mostra al MIC. La mostra vorrà̀ creare un corpo unico attraverso il mio lavoro bidimensionale e la realizzazione delle nuove sculture in ceramica. Ho pensato a un allestimento in cui lo spettatore possa trovarsi all’interno di una struttura labirintica in cui l’azione dell’attraversamento apra differenti punti di vista di fruizione sulle opere.
Non è la vostra prima occasione di collaborazione. Quale rapporto si instaura tra un artista e un curatore e in questo caso che tipo di dialogo sussiste e come incide nella costruzione della mostra?
Nel nostro caso è stato tutto molto naturale, merito della professionalità̀ e attenzione che Irene ha dimostrato nel suo avvicinarsi al mio processo di lavoro. Nel primo incontro in studio abbiamo parlato a lungo della recente mostra a Villa Croce a Genova, in cui, oltre il corpo principale formato dalle sculture, c’erano degli interventi che andavano da un archivio di immagini, bozzetti, sete a un intervento sonoro. Abbiamo iniziato a discutere le relazione delle ceramiche con l’immagine pittorica.
E poi cos’è successo?
Da lì a poco è nata l’idea di collaborare ed eccoci ad aprire la mostra al MIC. Con Claudia Casali e Irene Biolchini abbiamo deciso di fare una ristretta produzione di nuovi pezzi all’interno dei laboratori didattici del museo. Ho avuto modo di consultare la biblioteca e ammirare tutta la parte del restauro, conoscendo parte dello staff che mi ha gentilmente accompagnato. Una delle scoperte più interessanti è stato l’archivio fotografico fatto realizzare da Gaetano Ballardini prima della guerra, materiale di una rara bellezza.
Entriamo nello specifico della mostra, raccontami anzitutto della produzione in ceramica: come ti sei accostato a questo materiale? Come conviveranno, in mostra, le ceramiche con i tuoi dipinti?
Mi sono avvicinato alla ceramica dopo la mostra personale al Mart di Rovereto nel 2011, dove realizzai delle sculture in resina da forme antropomorfe. Volevo che le stesse forme potessero essere realizzate con un materiale naturale anziché́ sintetico. Cosi iniziai ad andare ad Albisola alla Fabbrica Mazzotti a lavorare la terra. Non so bene come conviveranno, il mio tentativo era quello di portarli in unico spazio visivo. Far sì che la scultura possa essere fruita come se fosse un quadro, creando una relazione uno a uno con lo spettatore. Viceversa, volevo che la pittura potesse essere fruita nello spazio potendoci girare attorno.
Come ti relazioni con le opere ceramiche degli artisti del passato recente e non? Albissola e Faenza sono luoghi densi di stratificazioni, incontri, esperienze di grandi maestri – penso alle ceramiche di Lucio Fontana, a cui Irene ha dedicato un bellissimo libro e a Giacinto Cerone, solo per citare due poli.
C’è forse una relazione viscerale nei confronti di opere di artisti passati che hanno lavorato con la ceramica. Penso a Fontana, Leoncillo, Ansgar Elde, Melotti e Jorn che ad Albissola ha vissuto costruendo un abitazione che in sé è un’opere in ceramica, luogo ora diventato casa museo dove a ottobre realizzerò̀ un progetto curato da Luca Bochicchio. Sono affascinato da artisti che hanno usato la ceramica senza farsi ingabbiare dalla tecnica, innescando un rapporto fisico con la materia.
Le opere sono state realizzate nel laboratorio didattico del museo: com’è stato vivere anche questa dimensione progettuale e laboratoriale negli spazi del MIC, a stretto contatto con i professionisti che lì lavorano costantemente?
Il laboratorio è stato fondato da Munari che per primo ha invitato artisti del suo tempo nello spazio. Per me è stato necessario adattarmi alle possibilità̀ di quest’ultimo. Da una parte mi hanno permesso di realizzare con una certa intensità̀ un numero di pezzi, accompagnato dalla esperienza di Dario Valli che si occupa della didattica, dall’altra cercando di sfruttare i limiti di uno spazio non completamente adatto alla produzione di ceramica.
Hai vissuto a lungo a Londra. Da poco sei rientrato a Milano. Raccontami come mai e delle differenze tra i due contesti per un artista della tua generazione.
I motivi del mio ritorno a Milano sono molteplici, ma riguardo al mio lavoro incominciavo a sentirmi schiacciato dalla pressione dei costi della vita. Era diventata per me una città molto faticosa, nonostante sia riuscito a ritagliarmi uno spazio con cui continuare a interagire. È una citta con flussi di pensiero che si contraddicono, ma nello stesso tempo creano un’energia particolare. È una citta unica e paragonarla sarebbe un errore. Il ritorno a Milano è avvenuto con grande curiosità̀ e piacere di riscoprire cosa stava succedendo.
Le tue aspettative sono state esaudite?
Purtroppo devo ammettere che le mie aspettative sono rimasta deluse. Ho trovato una città in apparenza vivace, aperta ad accogliere stranieri non solo come turisti della moda e del design, ma possibili abitanti. Il problema è stato notare che la comunità̀ dell’arte è rimasta una ristretta cerchia per persone che non ricevono alcuna attenzione dalle istituzioni pubbliche e private, se non in rarissimi casi. Non sufficienti a far nascere energia e scambi. Non credo gli artisti riescano a sentirsi considerati dalla città, si rimane un’entità̀ estranea e di poco interesse. Tutto questo fa inaridire e forse crea della frustrazione. Per questi e altri motivi lascerò̀ di nuovo Milano per spostarmi a Bruxelles.
Anticipami qualcosa del catalogo della mostra, prodotto dalle tue due gallerie, z2o Sara Zanin Gallery e Yamamoto Keiko Rochaix. All’interno, oltre al testo di Irene Biolchini, c’è anche un contributo critico di Marina Dacci, che da molto tempo segue con impegno il tuo lavoro.
Il catalogo della mostra e prodotto dal museo in collaborazione con le gallerie con cui collaboro. Sarà suddiviso in due sezioni che documenteranno i lavori e l’installazione della mostra al MIC. Una seconda parte metterà̀ in luce alcuni lavori degli ultimi anni. Verrà̀ presentato a mostra aperta, il 13 ottobre. Oltre al testo di Irene non poteva mancare un intervento di Marina, la quale segue il mio lavoro da molti anni. C’è una grande amicizia e stima e, come spesso dico, è una figura in Italia unica per la sua grande capacità di relazionarsi agli artisti e all’arte. Forse avremmo bisogno di più̀ persone capaci di spendersi così intensamente per gli artisti.
Sono assolutamente d’accordo con te. Raccontami invece dei tuoi progetti futuri. Che programmi hai dopo questa nuova personale? Mi hai già accennato, durante il nostro recente incontro in studio a Milano, della tua personale da Sara Zanin a Roma.
Come accennavo prima, ci sarà̀ un intervento a Casa Museo Jorn il 6 ottobre in cui presenterò̀, all’interno dello studio di Jorn, due nuove ceramiche e una serie di sete. Invece il 17 ottobre inaugurerà la mia seconda persona alla galleria z2o Sara Zanin. In questo caso, la mostra sarà̀ composta da un grande wall drawing che farà̀ da struttura di fondo per l’installazione dei nuovi quadri, ceramiche e un nuovo libro d’artista. Un periodo felicemente intenso.
Che strade sta prendendo la tua ricerca? Proseguirà̀ questo tuo impegno dedicato alla forma e alla sua struttura intrinseca attraverso la scultura?
Non ho idea di che strada stia prendendo la mia ricerca, forse spetta a voi critici intuirla. Io mi preoccupo di continuare a vivere e ordinare il caos che si genera nel mio studio e nella mia mente durante il tentativo di realizzare un lavoro.
‒ Lorenzo Madaro
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