Metafisica contemporanea. Intervista a Matteo Messori
Alle porte di Pescara nasce a giugno 2018 YAG/garage, acronimo di Young Artist Gallery. Il progetto deriva dall’esperienza de I Giardini d’Arte di Via Caravaggio, voluto dall’imprenditore Silvio Maresca e vede alla direzione artistica Ivan D'Alberto. Fino al 5 ottobre la sede ospita gli interventi di Matteo Messori, che abbiamo intervistato.
YAG/garage si pone come una cerniera fra il mondo accademico e il mondo del lavoro. A parteciparvi sono appunto i ragazzi usciti dalle accademie che hanno la possibilità di misurarsi con un ampio spazio per realizzare le opere successivamente esposte qui. E ognuno di loro entrerà a far parte della collezione permanente di YAG.
Lo scorso 21 settembre ha preso il via Sospesi, la personale di Matteo Messori, classe 1993, dell’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra pittura e scultura, Messori mette in scena forme perturbanti e precarie che ricordano formazioni organiche e che, come un’ossessione, attraversano la sua ricerca. Il giorno dell’inaugurazione abbiamo parlato con l’artista sulla scia della leggerezza di Calvino e della Metafisica dechirichiana.
La forma e il colore sembrano essere una costante nei tuoi dipinti e sculture. Gli oggetti che rappresenti, sospesi, sono designabili come contenitori e il fatto di non vedere ciò che vi è dentro li rende misteriosi e preziosi allo stesso tempo, metafisici. Perché la Metafisica al giorno d’oggi e quale rapporto ha con la rappresentazione?
La forma che costantemente dipingo è diventata per me un’ossessione, come quando sei al telefono e ti devi segnare un numero e inconsciamente disegni delle forme. In realtà nel mio caso questa cosiddetta “ossessione” è nata dopo due anni di ricerca sul segno grafico e sulla scelta della scala cromatica, due elementi che reputo molto importanti nella mia pittura. Chiamerei le figure che rappresento, più che oggetti, “soggetti”: alludono a dei contenitori misteriosi, però vogliono avere un divenire, si vogliono appropriare di un’identità pura, che molto probabilmente non troveranno mai.
Spiegati meglio.
Hanno diverse suggestioni: a volte alludono alle forme organiche del nostro corpo e in altri casi ricordano le linee grafiche che vediamo spesso nel mondo del design. Vivono in balia di loro stesse, come vagabondi in un paesaggio silenzioso, sprovviste di qualsiasi via di fuga o nascondiglio. In primis la mia pittura voleva essere anacronistica, poi in corso d’opera è nato questo rapporto con la Metafisica che ho abbracciato volentieri. Anche se devo ammettere che il mio modo di dipingere, in confronto a quello dei grandi storici della Metafisica, è più “maleducato”, non rispetta canoni stilistici precisi. Oggigiorno sono dell’idea che la Metafisica sia rara da vedere nell’arte contemporanea, io stesso mi reputo ancora lontano da quel mondo. Per me la Metafisica non è un semplice stile pittorico o un’ideale di rappresentazione, la vedo più come un’etica che vibra nell’animo dell’artista che crea l’opera d’arte.
Come hai interagito con lo spazio espositivo? Ragionando sullo spazio – istituzionale o privato che sia – notiamo che è parte fondamentale di un’esposizione, in quanto contenitore dell’arte o di ciò che si vuole proclamare tale. Il contenitore dà un senso a ciò che contiene?
Nella maggior parte dei casi, quando non vedo uno spazio in prima persona tendo a improvvisare in base alle suggestioni che colgo, in questo caso dalle foto che ho avuto a disposizione avevo ben chiara “un’idea espositiva”. Cioè quella di dividere in tre stanze invisibili lo spazio di YAG/garage, in maniera tale da poter avere una migliore resa per ogni lavoro preso singolarmente. All’interno di queste stanze sono nati dialoghi tra le forme e lo spazio, che mi hanno permesso di creare una conformità tra le opere. Riguardo all’idea dello spazio come contenitore vorrei aprire una piccola parentesi, credo sia un argomento per questo periodo artistico molto determinante, perché in buona parte dei casi succede che un’opera “regga” solo grazie al contenitore che la ospita. Con ciò non voglio criticare nessuno, ma credo sia un fattore da tenere in considerazione per tutti i giovani artisti che, come me, devono ancora maturare una ricerca stilistica. Inoltre vorrei dire che in questi ultimi anni abbiamo aperto le porte a spazi sempre più lontani e differenti dalle tipiche gallerie d’arte; di per sé può essere un elemento positivo ma anche negativo per il contemporaneo. Perché in base alle caratteristiche del contenitore cambia ciò che può contenere.
Nella serie Antiforma parli dell’importanza dell’identificazione per l’uomo, agendo al confine fra la forma inconscia surrealista e l’esattezza della forma metafisica. Come spieghi questa ambiguità dell’arte?
L’identificazione per l’uomo è sempre stata una grande incognita, la cerchiamo quotidianamente nelle cose che facciamo e inconsciamente mentre parliamo. Anche il solo fare arte è di per se un tentativo per scoprire la nostra identità, però, a mio avviso, rappresentarla è un’impresa ardua per chiunque. Perché la nostra personalità è in continua mutazione e non si ferma mai, come una corsa a ostacoli tra l’uomo e la sua identificazione. Cosi è lo stesso per la mia Antiforma, che considero quasi come un prolungamento del mio corpo: muta insieme a me e mi accompagna nell’intima ricerca della mia identificazione. L’ambiguità di per sé nell’arte è straniante, e quest’ultima ha bisogno di esserlo perché è anche il mezzo di riscoprirsi. Le due diverse forme che hai citato le vedo inserite all’interno di una formula matematica, queste due grandezze, in qualche modo, hanno generato la mia pittura, che in cuor suo ammira i pittori surrealisti e invidia quelli metafisici.
Formastante vive di contrasti, fra i materiali che si giustappongono e gli equilibri precari che mette in scena. È questa la leggerezza calviniana, una consistenza densa che gioca con forme e movimenti lievi e superfici trasparenti?
La leggerezza di cui parli la considero per tutti noi irraggiungibile, perché in questo momento ci troviamo nel periodo più carico di immagini e di notizie che ci sia mai stato. La leggerezza ambisce ad altri confini che sono molto lontani dalla società in cui viviamo, credo che Calvino la chiamerebbe “epoca pietrificata”, dove regna sovrana la pesantezza, che avanza a seconda delle persone e dei luoghi. Pesantezza e leggerezza sono due modi diversi di porsi nei confronti della vita e non siamo in grado di definirle. Le persone oggi si affidano alla superficialità e il loro scopo non è quello di ispirare emozioni, ma di creare l’ordine nel caos in maniera accuratamente proporzionata, quasi maniacale. Mentre, secondo Calvino, la leggerezza non si lega a niente e non è superficiale: invece di volare in alto tende a planare su ogni cosa.
Anche tu vai in questa direzione?
Come faceva Calvino nei suoi scritti, anch’io in qualche modo cerco di sottrarre peso alle mie forme, nel tentativo di trovare la leggerezza dove non è. Formastante è una serie che è nata dopo le mie antiforme, in questo caso volevo provare a esportare dalla tela la forma che dipingevo. Non credo di esserci ancora riuscito appieno, ma in alcuni lavori che ho portato a YAG/garage ho notato nuove forme che rispecchiano il senso straniante che voglio dare. Inoltre Formastante vuole indagare da più vicino gli equilibri tra le forme non solo nell’aspetto estetico, ma anche nel carattere che hanno i materiali e come tra di loro possono interagire.
‒ Martina Lolli
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