Artisti da copertina. Parola a Matteo Montagna
La copertina del nuovo numero di Artribune Magazine è firmata da un artista innamorato dello sport e cresciuto nel solco della cultura pop. Lo abbiamo intervistato.
Nato e cresciuto in provincia, sin da piccolo Matteo Montagna ha coltivato una forte passione per lo sport, in particolare per il basket e il calcio. Nella vita e nel lavoro ha conservato lo spirito ludico, l’entusiasmo e la spontaneità di un bambino, perché ci dice: “È fondamentale divertirmi mentre creo. Gioco mentre lavoro e viceversa”. Le sue opere, frutto di performance, installazioni, fotografia e grafica, sono un concentrato di cultura hip hop, sport, folklore e influenze pop. È anche un abile disegnatore e illustratore, che si diverte a lanciare messaggi e lasciare segni su magliette, calze e cappellini, nello stesso modo in cui uno street artist lo fa sui muri delle città.
Carta d’identità.
Ehilà! Nato e cresciuto in Brianza, 1992.
Quando hai capito che volevi fare l’artista?
Quando ho capito che m’incuriosiva osservare.
Hai uno studio?
Sì, in Brianza. Grazie Dado!
Quante ore lavori al giorno?
Dipende.
Preferisci lavorare prima o dopo il tramonto?
Appena prima del tramonto, con luce naturale e morbida.
Che musica ascolti, che cosa stai leggendo e quali sono le pellicole più amate?
Amo Rino Gaetano. Ascolto musica italiana Anni Settanta-Ottanta. Mi piace la cultura hip hop. Sto leggendo Il buon abitare (Iñaki Ábalos), sono abbonato alla rivista Undici, che tratta di calcio in maniera molto seria e interessante, e sto rivedendo il catalogo di una mostra di Francis Alÿs al MALBA di Buenos Aires. Pellicole: Non essere cattivo (Claudio Caligari), Il sorpasso (Dino Risi), Dumbo e Totò.
Un progetto che non hai potuto realizzare, ma che ti piacerebbe fare.
Ho sempre voluto giocare una partitella di calcio, 2 vs 2, in uno spazio espositivo, utilizzando la struttura limitante dello spazio come campo, senza alcuna modifica. All’esterno un truck con salamelle e birra fresca!
Qual è il tuo bilancio fino a oggi?
Essere fortunato a coltivare questa passione.
Come ti vedi tra dieci anni?
A viaggiare su una jeep, collaborando a più progetti possibili e con più capelli!
Il gioco è un elemento imprescindibile nel tuo lavoro: stampi di macchinine in gesso, palloni sgonfiati e squarciati, cappellini colorati da basket con slogan.
È fondamentale divertirmi mentre creo. Gioco mentre lavoro e viceversa. Ci sono regole da rispettare nel gioco, non è solo un’attività divertente. Quello che m’interessa è giocare creando, si tratta di un atteggiamento esteso anche alla mia vita.
Se ti dico Peter Pan.
Rispondo Daffy Duck.
Un altro aspetto fondamentale è lo sport.
Pratico sport dall’età di sei anni. Ho giocato a calcio per molto tempo, alle elementari praticavo anche basket e ricordo che i miei genitori non ne potevamo più dopo cinque anni – giocavo al sabato a basket e la domenica a calcio – ma li ringrazio molto. Dell’aspetto sportivo m’interessano tutte le dinamiche che si creano, come far parte di un team, compiere un’azione per fare goal o punto, emozionarsi quando si calpesta un campo d’erba, le stesse esultanze dopo un goal, usare il corpo per compiere degli sforzi apparentemente inutili. Ultimamente ho riguardato le performance di Matthew Barney, Drawing Restraint.
La provincia è la tua maggiore fonte d’ispirazione. Più che in studio, le tue opere nascono dalla strada.
Rispetto a una città, la provincia ha una mentalità più chiusa, ma allo stesso tempo è genuina e umile. C’è un grande senso di comunità e le cose procedono più lentamente.
>Mi piace pensare che lo svolgimento della mia pratica artistica sia simile al corteggiamento che si mette in atto per conquistare una donna. Ironico. Sportivo. Ingenuo. Scemo pagliaccio”. Che cosa intendevi dire?
Quando corteggi una persona, c’è sempre quella parte d’attesa dove succede tutto. Dove si è curiosi, euforici, eccitati, ingenui. Mi piacerebbe protrarre questo momento. Nel mio processo creativo mi sento così, un momento che solo tu puoi godere. Poi c’è quella parte più noiosa e automatica del risultato. Scemo pagliaccio è un soprannome datomi all’università.
Quanto l’aspetto performativo è influente nella tua pratica?
Da sportivo mi viene naturale performare. Un atto che per ora conservo nel processo creativo. Come costruire un’azione da goal, c’è un percorso necessario per arrivare al risultato finale, ma lo spettacolo rimarrà il goal.
Le tue opere sono 100% pop da un punto di vista formale. La tua non è una critica al consumo ma un elogio del ludico, un’esaltazione della parte infantile in ognuno di noi.
Esattamente! Un mio amico scrisse di me in questi termini: “Nel suo lavoro, ‘bambino’ smette di essere identità sociale e diventa pratica ferrea, una dottrina fatta di sconfinate autorità e leggerezza, il sommo potere di creare parentesi eterotopiche in cui storie di successi e sconfitte si articolano nel rettangolo di un cortile”.
Sei un abile disegnatore e illustratore. Quali sono i progetti che stai portando avanti in quest’ambito?
Sto illustrando su magliette, calze e cappellini.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Quando mi hai proposto la copertina, ho pensato che era come vincere un premio sportivo, come il desiderio di un bambino di alzare una coppa. In questo caso ho guadagnato la copertina di Artribune, così l’ho trattata come se fosse un premio e ho creato Sbaaam.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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