Pittura lingua viva. Parola a Valentina D’Amaro
Viva, morta o X? Ottavo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Nata a Massa nel 1966, Valentina D’Amaro vive e lavora a Milano. Si è diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha partecipato a mostre personali e collettive in spazi espositivi pubblici e privati in Italia e all’estero tra i quali: Spazio Yellow, Varese; Dimora Artica, Milano; MARS, Milano; Galleria unosunove, Roma; PAC, Milano; Triennale di Milano, Milano; Palazzo della Permanente, Milano; Palazzo Reale, Milano; Palazzo Parasi, Cannobio (VB); Villa Reale Monza; Museo Voorlinden (collezione), Rotterdam; Guang Dong Museum of Art, Canton, China; Seconda Biennale di Praga, Karlin Hall, Praga, Repubblica Ceca; Hangart-7, Salisburgo, Austria; Barbican Centre, Londra, UK; Lo stato dell’arte, 54esima Biennale di Venezia, Padiglione Italia; Museo Tornielli, Ameno (NO); Museo Paolo Graziosi, Firenze; Museo Biumi Innocenti, Pallanza (VB); Museo del Paesaggio, Pallanza (VB); Kunstverein Neukolln, Berlino; Palazzo della Ragione Verona; Castello Visconteo, Legnano; Museo Michetti, Francavilla al Mare (CH); Trevi Flash Art Museum, Trevi (PG); Pinacoteca Civica, Lissone; Palazzo Ducale, Massa. Nel 2019 è prevista una mostra personale alla MAAB Gallery di Milano. Ha preso parte a diversi workshop tra i quali: Licht und Luft ‒ Elementi di un’Utopia. “Possiedono il segreto della Vita, lassù… sul Monte Verità”, progetto e cura di Lorenza Boisi e CARS; Landina, workshop sulla pittura en plein air di paesaggio, ideato da Lorenza Boisi e CARS; Gabriele Basilico, Forma, Milano; Re-enacted Painting, Viafarini, Milano; Massimo Vitali, Museo Pecci, Prato. Nel 2005 è la vincitrice della sesta edizione del Premio Cairo. Nel 2016 il suo lavoro è stato incluso in Vitamin P3: New Perspectives in Painting, pubblicato da Phaidon Press.
Come ti sei avvicinata alla pittura?
È successo spontaneamente. Fin da piccola passavo il tempo a disegnare e a guardare i dipinti sui libri. Appena ho potuto ho messo mano a tutti i tipi di colori che trovavo: acquerelli, tempere e soprattutto colori a olio, che erano quelli che più mi entusiasmavano. Ho iniziato presto a fare copie e sperimentazioni perché sentivo di fondamentale importanza acquisire la tecnica nei suoi vari possibili procedimenti. Questi studi sono andati in parallelo con la formazione scolastica, liceo e Accademia di Belle Arti e sono continuati anche dopo.
Quali sono i tuoi maestri e gli artisti, più o meno vicini, cui guardi?
Sono tanti gli artisti ai quali ho guardato nel corso della mia formazione, e che ho anche copiato. I maestri con i quali sento più affinità sono Hopper e Rothko. In passato ho guardato anche a Richter.
Verso la fine degli Anni Novanta hai realizzato i tuoi primi paesaggi. Come si sono evoluti nel corso del tempo fino a oggi? Quali le principali differenze tra questi primi lavori e le serie recenti? È cambiato il tuo modo di guardare alle cose?
Nei primi lavori riflettevo su come i media influenzassero la nostra percezione alterandola e il paesaggio era ciò che meglio rendeva l’idea del dualismo naturale/artificiale. Successivamente ha acquisito importanza il paesaggio in sé, nella sua essenza. È nato così un ciclo di dipinti nel quale la composizione si spogliava sempre più di elementi e dettagli e acquistava una maggiore profondità, e anche una particolare “sospensione”. Nel tempo ho sentito di dover approfondire alcuni aspetti caratterizzanti questa sospensione, o “mistero” che dir si voglia. Sono nate così, in parallelo al ciclo principale, dapprima la serie Switzerland dedicata all’omonimo Paese e al suo genius loci, qualcuno direbbe, e poi la serie Vespro, che, ispirata dal desiderio di confrontarsi oggi con la tradizione del sublime romantico, ritrae paesaggi lacustri e montani avvolti in atmosfere serali. Se già le energie e le forze presenti in natura erano l’oggetto più o meno dichiarato delle precedenti ricerche, con l’ultima serie, Viridis, dedicata al meraviglioso, l’interesse per la metafisica si afferma definitivamente. Direi che, col tempo, il modo di guardare alle cose è cambiato in termini di profondità e consapevolezza.
Esistono un rapporto e dialogo con la fotografia? A metà degli Anni Duemila hai realizzato alcune serie fotografiche sempre dedicate ai paesaggi…
La fotografia è sempre stata presente e preziosa non solo come elemento di partenza per i dipinti. Ho prodotto diverse serie fotografiche di paesaggi, in parte inedite. Nelle immagini, concepite sempre e comunque con lo sguardo del pittore, intervengo digitalmente e, talvolta, anche manualmente, pittoricamente sulle stampe, come nella recente serie Viridis, in cui la rappresentazione del meraviglioso ha preso sostanza nella misurata sovrapposizione di glitter colorati.
E sempre degli Anni Duemila è una serie di ritratti di figure femminili che, per certi versi, mi sembra tu trattassi come i tuoi paesaggi: essenziali, rigorosi, con una palette ristretta di colori… Perché hai poi abbandonato questi soggetti per concentrarti su una tipologia unica, quella del paesaggio? Tra l’altro si tratta di un classico della pittura di genere che nei secoli ha sempre avuto meno visibilità rispetto ad altri soggetti…
Le ragazzine degli Anni Duemila erano la prosecuzione a distanza “generazionale”, potrei dire, di un ciclo degli Anni Ottanta dedicato ai punk e ai dark. Questi erano rappresentati in modo espressivo e dirompente oppure solenne e misterioso. Ritraendo le loro “figliocce”, invece, ho inteso sottolineare che, pur ostentando aggressività nel look e nei gesti, queste nuove generazioni femminili in realtà tradivano molta fragilità. Era una riflessione in risposta a casi di cronaca e di costume, che andava però a sondare anche una questione più profonda, identitaria, che toccava l’essenza femminile in una prospettiva storica di secoli di incidenza di condizionamenti culturali. Come nella tua descrizione, l’intento era quello di presentare figure isolate, essenziali, viste con distanza, con uno sguardo osservatore ma non giudicante. Non è stato propriamente “deciso” il termine di questo tema, ho semplicemente sentito che il paesaggio mi stava nuovamente chiamando.
Cosa rappresenta per te la natura?
Tanto, tantissimo, per non dire tutto. È inesprimibile a parole.
I tuoi paesaggi sono altro da sé. Sono metafore, sono dei non luoghi e al contempo sono degli archetipi. Come nasce un tuo quadro, come costruisci la composizione e arrivi a definire quella sorta di continuità nella varietà che rende le opere subito riconoscibili come tue? Pittura dal vero o in studio?
I lavori partono da immagini fotografiche che scatto io stessa. Tutto il resto si svolge in studio in un lungo processo. Seleziono ed elaboro al computer quegli scatti che più sento carichi di potenzialità espressive. In essi la composizione deve rispondere ad alcune particolari dinamiche per poter indurre un certo tipo di risposta. Non è un processo intellettivo quello che i miei dipinti intendono sollecitare, anzi, è proprio ciò che vogliono eludere, per entrare senza filtri, per risonanza, in contatto con la parte profonda del nostro essere, un po’ come fa la musica.
Nel mio immaginario il paesaggio inabitato è una metafora molto efficace. Rappresentare un luogo aperto si rivela immediatamente inclusivo e attrattivo. Inoltre, non essendoci né protagonisti né narrazione, s’instaura un certo grado di sospensione, anche temporale. Negli anni ho messo a punto una tecnica pittorica basata su stratificazioni di velature che dall’occhio sono percepite sotto forma di vibrazioni, ed è fondamentale per rafforzare il richiamo visivo, da una parte, e l’invito a lasciarsi condurre in una dimensione meditativa, dall’altra.
Sei tra i pochissimi italiani inseriti in Vitamin P3, prestigiosa pubblicazione di Phaidon dedicata alla pittura. Quale la tua opinione sullo stato della pittura italiana e sui suoi rapporti con il panorama internazionale?
Essere su Vitamin P3 è stato uno straordinario riconoscimento per un lavoro portato avanti silenziosamente e ostinatamente e, a maggior ragione, perché la pittura italiana all’estero, da quel che ne so, è quasi sconosciuta. Quanto ai miei colleghi, che dire? Non mancano bravissimi ed eroici pittori in Italia. Ma si perpetua da tempo un grave pregiudizio che vuole il pittore un semplice e anacronistico artigiano. Una maggiore apertura da parte dei curatori verso la pittura italiana, conoscendola dal vivo e attraverso un confronto con i suoi autori, potrebbe essere un arricchimento reciproco e il punto di partenza per una profonda revisione e un rilancio, anche internazionale, di questo nobile linguaggio. Se non si comincia dal nostro stesso Paese, come possiamo aspettarci attenzione e visibilità all’estero?
‒ Damiano Gullì
Pittura lingua viva #1 ‒ Gabriele Picco
Pittura lingua viva #2 ‒ Angelo Mosca
Pittura lingua viva #3 ‒ Gianluca Concialdi
Pittura lingua viva #4 – Michele Tocca
Pittura lingua viva #5 ‒ Lorenza Boisi
Pittura lingua viva#6 ‒ Patrizio Di Massimo
Pittura lingua viva#7 ‒ Fulvia Mendini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati