Versus. Il dibattito tra globale e locale
In questo capitolo di “Versus”, Domenico de Chirico e Lorenzo Madaro guardano l’arte di oggi da angolazioni diverse: meglio allontanarsi per guadagnare una visione d’insieme o soffermarsi su particolari minuti e preziosi?
Globalizzazione e identità sono ormai concetti abusati e logori, a proposito dei quali si è detto di tutto. L’idea tradizionale di società ha ceduto il posto a una realtà complessa, in cui convivono individualismo e pensiero unico, campanilismi e omologazione. Due giovani curatori condividono con i lettori della rubrica Versus le proprie considerazioni sul superamento di una rigida dicotomia fondata su obsolete categorie antropologiche. Domenico de Chirico è un viaggiatore infaticabile, uno spirito cosmopolita, un attento osservatore delle tendenze internazionali; ha collezionato importanti esperienze professionali all’estero ed è il direttore artistico di DAMA. Lorenzo Madaro porta avanti con dedizione un percorso di studio, analisi e divulgazione centrato sulla marginalità, al fine di evidenziare atipici punti di forza ed elementi originali nella ricerca di artisti italiani trascurati dal sistema.
Quanto ritenete sia importante il legame tra il contesto e la produzione artistica? Se priva di espliciti e riconoscibili riferimenti al territorio e alla comunità in cui è stata creata, un’opera è da considerare incompleta, perché slegata dalla realtà, o esemplare, in virtù della sua universalità?
Domenico de Chirico: Le opere di straordinaria potenza estetica nascono, a mio avviso, da situazioni di imparzialità o meglio ancora di innalzamento vorticoso verso apici ad ampissime vedute fuori dal tempo e dallo spazio. Mi piace pensare che stream of consciousness, background ed esperienza odeporica possano in qualche modo influenzare sia l’arte sia la condotta di vita dell’artista. L’atto di spostarsi da un luogo all’altro compiendo un certo tipo di percorso può condurre ispirazioni, identità e spessore artistico e narrativo a uno stadio fertile e creativo di eterogeneità. Pertanto, la mia idea di contesto è un’idea aperta, armonica e consapevole, proporzionalmente opposta alla frigida incuriositas o semplicemente alla “geolocalizzazione”.
Lorenzo Madaro: L’opera d’arte – l’ha precisato un gigante come Roberto Longhi nelle sue Proposte per una critica d’arte – è innanzitutto un rapporto. Perciò il contesto influisce, compreso quello chiuso e domestico in cui l’artista respira e opera. Ma naturalmente questi sono problemi metodologici che devono porsi anzitutto il curatore e il critico. L’artista non credo debba preoccuparsene con un approccio attivo, sono questioni che gli appartengono a prescindere e che – ma non sempre – transitano apertamente in un’opera o in un display espositivo.
Interpretate l’emergere di un riconoscibile “stile internazionale” come naturale e positiva convergenza verso un ideale di bellezza in grado di superare confini e divisioni culturali, oppure come banale livellamento imposto dal mercato?
Domenico de Chirico: Per dirla con il poeta romano Orazio: “Esiste una misura nelle cose; esistono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto”. Dunque, la mia risposta è una sorta di temperanza tra due estremi che sono in egual misura da evitare poiché in entrambi i casi ci possono essere forme identitarie predefinite di omologazione e conformismo dettate da “ideali di bellezza” e “leggi di mercato”.
Lorenzo Madaro: Il mercato sollecita la produzione – e spesso l’iperproduzione – di determinate linee estetiche (in fondo è sempre stato così, anche se in tempi recenti questo fenomeno è più calzante, perché maggiormente diffuso e comunicato), ritenute poi globali e, sempre più spesso, fa apparire queste come egemoniche rispetto alla produzione artistica attuale. Si rischia l’omologazione e l’imitazione (cioè il potere degli epigoni), non credo pertanto che tale approccio potrà mai riuscire nell’intento legato al superamento dei confini e delle differenze culturali. Ma soprattutto ciò rischia di cancellare quel concetto di stratificazione delle differenze che è sempre stato alla base della pluralità, quindi per certi versi oscura tutta quella produzione connessa con altre linee di ricerca. Il mercato, che è un ambito fondamentale perché in teoria dovrebbe consentire a tutti di campare, andrebbe per certi versi rifondato. Ma come?
Vorrei tentassimo di evidenziare pregi e difetti di approcci diametralmente opposti – uno nomade, aperto al decentramento e fortemente relativista, l’altro fondato sul legame indissolubile con le radici e su un’idea poetica dei luoghi – individuando debolezze e punti di forza nella produzione di artisti che considerate paradigmatici in un senso o nell’altro.
Lorenzo Madaro: Sono due approcci per molti versi opposti, ma non sono in grado di rispondere adeguatamente a questa domanda poiché sono convinto che non si possa ragionare in termini di “pregi” e “difetti”, così come di “debolezze” e “punti di forza” rispetto al dispositivo opera d’arte. Questo perché l’opera va presa in considerazione nella sua totalità, con i suoi differenti e a volte anche opposti pesi specifici, in relazione alla ricerca del singolo artista e del contesto in cui è stata generata. Avrei quindi il timore di semplificare questioni molto complesse perché stratificate, non solo nella progettualità (che c’è sempre, anche negli artisti irregolari) legata all’opera, ma anche nella formalizzazione dell’opera stessa. Ma mi fa piacere citare il lavoro di un artista straordinario di cui mi sono molto occupato e credo che il suo capolavoro, il Santuario della Pazienza, ovvero un grande giardino di sculture antropomorfe in cemento e materiali di risulta, non sarebbe potuto nascere in un luogo distante dal Salento, dove Ezechiele Leandro, il suo radicale autore, è nato e ha vissuto. Simbologie legate all’immaginario popolare, horror vacui, relazione tra scultura e spazio e tra scultura e cielo: sono tutte questioni paradigmatiche di un certo approccio e di una certa geografia.
Domenico de Chirico: Le complesse caratteristiche di due approcci così differenti vanno sicuramente analizzate penetrando all’interno del lavoro del singolo artista. Per riportare un esempio che può fungere da binomio più o meno applicabile ad altri casi, si potrebbe evidenziare da un lato il lavoro di Darren Bader, la cui ricerca generalmente ruota intorno a idee di libero scambio, paternità e confini dell’oggetto artistico in cui tutto può essere utilizzato ancora e ancora; dall’altro il motivo artistico di Guan Xiao, il quale gravita attorno ai modi di vedere il mondo colpiti dal regime digitale della circolazione delle immagini, noto per giustapporre passato e futuro, primitivo e classico, artefatto e natura, rudimentale e high-tech senza mai distaccarsi da quel tipico sapore che contraddistingue la sua cultura madre vivida e complessa. In entrambi i casi la linea di confine è sottile poiché vi è comunque una certa apertura, un tentativo di sintetizzare numerosi riferimenti provenienti dal tempo e da tutte le aree geografiche. Si tratta di procedimenti che differiscono per traiettoria, il primo di tipo induttivo e il secondo deduttivo, uno che parte dall’alto muovendo di volta in volta alla messa in discussione di oggetti preesistenti, l’altro dal basso verso l’alto alla ricerca di ciò che sta dietro alla formazione di una coscienza dell’oggetto stesso.
Sul versante della ricezione, invece, quanto è grande la distanza tra il pubblico generalista e quello degli appassionati? I fruitori più attenti raggiungono abitualmente i centri propositivi, dove l’offerta espositiva è ampia e si concentrano i musei, le gallerie, le fiere e gli studi degli artisti. Si tratta però di una minoranza: non tutti hanno la possibilità economica di investire in aggiornamento culturale, mentre in molti casi manca addirittura la motivazione. Quale tipologia di interventi sul territorio (mostre dal taglio divulgativo, residenze…) credete possa realmente favorire lo sviluppo delle periferie?
Lorenzo Madaro: Quella del pubblico è la vera questione che il sistema dell’arte dovrebbe affrontare, soprattutto in Italia. C’è spesso un diaframma tra chi organizza e cura le mostre e chi le fruisce, così il rischio dell’autoreferenzialità di artisti e curatori è dietro l’angolo. Scrivendo d’arte da oltre otto anni su Repubblica, mi pongo spesso questo problema: come rendere comprensibile per il grande pubblico il contenuto di un progetto espositivo in uno spazio pubblico? Dovrebbe essere la prima mission. Le istituzioni pubbliche e private dovrebbero quindi impegnarsi di più sulla didattica, sulla comunicazione e sulla comprensione di temi e opere che ai più possono apparire incomprensibili. Bisognerebbe partire dalla scuola, ma come, visto che gli ultimi governi hanno tagliato ulteriormente le ore di storia dell’arte?
Domenico de Chirico: È sicuramente un problema complesso e persistente, credo che prima di porci una domanda sulle metodologie di fruizione dell’offerta del sistema arte sarebbe necessaria una comunicazione più efficace che permetta anche a chi non è del settore di sentire l’arte come qualcosa di più prossimo. Inoltre, credo sia una questione legata al consumo cosciente e informato della cultura e a come essa viene tramandata, acquisita e selezionata.
‒ Vincenzo Merola
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