Creare le nuvole. Intervista a Berndnaut Smilde
Vapore acqueo che si condensa e diventa una soffice idea di grazia. Una delle gemme all'interno del festival Ō, curato da Cristiano Leone alle Terme di Diocleziano di Roma, sarà il talk con Berndnaut Smilde, in programma il 28 ottobre. Lo abbiamo intervistato.
Festival Ō, la rassegna culturale dedicata alla danza e alla musica, è stata ideata da Electa in collaborazione con il Museo Nazionale Romano diretto da Daniela Porro e vedrà un fitto programma di interventi con quaranta artisti internazionali e appuntamenti che si susseguiranno fino al 16 dicembre.
In attesa dell’esposizione fotografica al Planetario e dell’incontro ufficiale, nel quale Berndnaut Smilde (Groningen, 1978) svelerà il segreto della sua opera, Nimbus ‒ un calmierato equilibrio che coinvolge l’ambiente, l’umidità, la temperatura e prevede l’utilizzo di un nebulizzatore e di un particolare macchinario che eroga fumo (l’aerogel) ‒ ci siamo intrattenuti con lui per intervistarlo. Traspare una persona umile, dallo sguardo luminoso e un sincero desiderio di condivisione.
Ci sono più momenti nella gestazione della sua opera, racchiusi in un tempo brevissimo: la nascita della forma, la mutazione, la “cattura” fotografica mentre manca la percezione diretta dell’installazione da parte del pubblico. La fotografia e il video hanno così un ruolo fondamentale nella documentazione: ha mai pensato di sviluppare anche il carattere performativo o pensa che Nimbus perderebbe la sua magia?
Penso possa perdere la magia se sono io stesso ad agire da performer. Tuttavia per l’Armory Show ho concepito un momento di creazione automatica delle nuvole, sembrava un set cinematografico, avevo programmato un computer che faceva in modo che si ricreassero nuvole ogni quindici minuti senza il mio controllo, dovevo solo lasciarle andare, si muovevano nello spazio reale. Apparivano al momento giusto nel luogo giusto. Mi piace davvero l’idea che la fotografia documenti questo avvenimento. Se dovessi fare una performance diverrebbe qualcosa di forzato, “io che creo le nuvole”, un tentativo di simulare la natura. Quello di cui mi interessa parlare è del tempo che scolpisce le nuvole. Le nuvole nella storia della pittura sono state utilizzate per le divinità, per far sì che gli dei si muovessero nei cieli, per rivelare qualcosa. Ora le nuvole sono cariche di messaggi diversi. Possono farci intuire il meteo, sono ancora una metafora per immagazzinare il sapere, la conoscenza. Sento che il modo in cui guardiamo e pensiamo alle nuvole è cambiato.
Ci può spiegare il suo legame da una parte con l’arte fiamminga e olandese, dall’altra con il Romanticismo, emblema di questo interesse per il cieli plumbei, carichi di intensità luminosa?
Gli olandesi e i fiamminghi non hanno montagne, ci fronteggiamo con cieli immensi. In pittura i cieli hanno sempre giocato un ruolo fondamentale. I pittori usano il cielo per rendere il dipinto più magnetico, con forme intriganti, luci diverse. Le nuvole sono incontrollabili, sono elementi per creare la luce. In quanto olandese sono molto interessato alle marine, alcune con la tempesta che sta per imperversare altre con il cielo che si rasserena. Sono coinvolto in ciò che aleggia in un dipinto, il senso di perdita dinnanzi una tempesta che sta per scaturire. In questo senso mi sento vicino al Romanticismo.
Alcuni artisti come il danese Olafur Eliasson sono interessati alla luce, si può dire lei sia maggiormente attratto dall’evanescenza? In che modo?
Sono attratto dagli aspetti temporali, certo, lavoro anche con la luce, come nella serie degli arcobaleni. Mi interessano i riferimenti culturali. Quando progetto un arcobaleno penso rappresenti la perfezione e la promessa, ma mi chiedo cosa significhi per l’uomo quando compare: segnala qualcosa di positivo o di negativo? Ci fa sentire al sicuro o meno? Io gioco con i significati che ruotano attorno a questi simbolismi legati a fenomeni reali. Ma l’arcobaleno è ancora altro. Le nuvole si possono “toccare”, ma l’arcobaleno è fittizio, è qualcosa che esiste solo nei nostri occhi, è la rifrazione della luce nelle nubi, evanescente.
È come un’astrazione?
Sì esatto, è più il fatto di essere presente e assente, costruire qualcosa, seguirla appartato: questo penso sia più interessante nel mio lavoro, più che la luce stessa. Forse gli aspetti scientifici influenzano Olafur Eliasson, lui incarna più di me la figura dell’artista scienziato che partorisce invenzioni, congegni per fare sì che il resto funzioni.
In Che cosa sono le nuvole di Pierpaolo Pasolini la nuvola rappresenta la bellezza e il senso stesso della vita, il suo essere ineffabile, misteriosa e incomprensibile. Secondo lei la nuvola cosa rappresenta?
Per me rappresenta la possibilità di cambiare. Qualcosa che può mutare forma e trasformarsi in altro. Una prospettiva di cambiamento, che mi porta in una stanza e mi dà modo di guardare allo spazio in maniera differente.
Ci sono delle letture o il pensiero di un filosofo che l’hanno guidata nella concezione della sua opera oppure ritiene sia connessa al fascino per i fenomeni scientifici?
È più legata al mio modo di guardare al paesaggio piuttosto che essere ispirata da un libro in particolare. Mi sono interessato al volume di Bruno Latour (sociologo, antropologo e filosofo francese) Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion, and Art sullo statuto dell’immagine. A volte è necessario distruggere qualcosa per poi ricostruirla e renderla migliore. Quando i pompieri devono rompere le finestre per trarre in salvo le persone in trappola, devono rompere qualcosa per poi agire. Le immagini hanno il potenziale di dire la verità, quello che è valido e giusto. Questa è un’idea che metto in connessione con il mio lavoro.
In che modo?
Ho visto un documentario veramente interessante sulla luce olandese, sulla sua tipicità, abbiamo molti specchi d’acqua che la riflettono e la rimbalzano nuovamente nel cielo. Per questo abbiamo quella luminosità particolare nei dipinti, credo dipenda dal luogo in cui ci si trova. La luce francese è diversa dall’americana. È proprio quello che stavo notando oggi, queste nuvole! Non le abbiamo in Olanda, sono veramente enormi, giganti qui, da noi sono più piccole!
Cosa ritiene importante del legame scienza/arte nella sua poetica artistica?
Non ho mai studiato chimica però ho lavorato con scienziati, mi hanno aiutato a costruire un enorme prisma, l’età dei materiali. Non si può produrre un grande prisma con il vetro, così abbiamo costruito una struttura simile a un acquario. Io sono più influenzato dalla fisica, gli scienziati devono analizzare la realtà creando database.
Cosa pensa dei social media come Pinterest o Instagram, legati all’immagine, che possono aver contribuito alla diffusione popolare della tua arte?
Non sono interessato ai social media, ma ricordo quando ho creato la prima nuvola in una cattedrale, bastò che qualcuno la postasse e dopo qualche giorno iniziai a vederla ovunque, online, nei magazine di design, come se ogni giorno la nuvola migrasse in una diversa parte del mondo, dagli Stati Uniti alla Russia. A volte è pazzesco seguire i suoi movimenti! Stavo parlando con un tassista e ha esclamato: “Ho visto il tuo lavoro!” Per me è fantastico che questo possa accadere. Le immagini viaggiano, puoi collezionarle. Basta pensare all’ammontare di immagini negli ultimi cinque, dieci anni, che continuamente sbucano in pop-up da ogni sito, mi chiedo dove stiano andando.
Al pari delle nuvole?
Sì, ma c’è questa loro evanescenza che le rende speciali, le nuvole vanno via prima che le persone possano acchiapparle. Sembra che manifestiamo il nostro interesse quando clicchiamo due volte su una foto, mettiamo il like e allo stesso tempo fortifichiamo quell’immagine, è uno strano fenomeno, non pensi? Anche quando stiamo osservando un oggetto, all’improvviso andiamo in un’altra direzione e troviamo qualcos’altro che ci stimola.
‒ Giorgia Basili
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