Dialoghi di Estetica. Parola a Fabio Roncato
Artista, Fabio Roncato vive a lavora tra Padova e Milano. Dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, ha sviluppato le sue ricerche nel campo della scultura e ha proseguito il suo percorso di formazione con diverse residenze – tra le quali l’Atelier Bevilacqua la Masa a Venezia, VIR ‒ Viafarini in Residence a Milano e la Jan Van Eyck Academie a Maastricht. Attualmente è in corso la sua mostra personale “Il pianeta dove evaporano le rocce”, curata da Chiara Casarin ed Eleonora Castagna, allestita presso la Torre delle Grazie, nuovo sito dedicato all’arte contemporanea dei Musei Civici di Bassano del Grappa. Il punto di riferimento di questo dialogo è la scultura. Attorno a essa sono emerse riflessioni sulla sua autonomia, sulle fasi di lavoro che la rendono possibile, sui fallimenti e le possibilità operative, sul legame con l’immaginazione, sul rapporto tra forma e materia.
Il tuo lavoro con la scultura procede in direzioni diverse. In questa fase stai esplorando la dimensione materiale lavorando soprattutto sulla espansione delle forme. Da dove inizia questa indagine?
Dalla mia necessità di mettere in dubbio ciò che conosco e di non tenere buona alcuna verità preventiva. Probabilmente, quella espansione delle forme di cui parli, è una sorta di manifestazione visibile di questo mio modo di lavorare.
Seguendo questa impostazione, come procedi nel tuo lavoro?
Prima di tutto c’è una fase progettuale, che ha per me un valore esplorativo. Con essa cerco di capire come funzionano le cose. In un secondo momento prendo le distanze dalla conoscenza che ho appreso. Quando iniziano a sorgere dei dubbi procedo con il lavoro sul materiale.
Proviamo a chiarire il ruolo di questo allontanamento rispetto all’origine dell’opera.
Mi allontano da un sapere costituito dall’inizio, diciamo così: prendo le distanze dal rapporto verità / scienza. La tensione che nasce da questa assenza determina la fase in cui indago il materiale e lo pongo in uno stato critico. Le soluzioni che possono nascere hanno perciò più a che fare con l’esperienza di un urto che non con la ricerca e l’indagine. Così l’opera può racchiudere e conservare la poeticità di questo processo.
Questi due momenti, di indagine conoscitiva e di attività pratica, possono anche trovare una sintesi?
L’attività scultorea per come la pratico e la sto scoprendo – ogni volta imparo cose nuove – si potrebbe riassumere nella mia necessità di indagare un materiale in modo tale da ottenere il massimo delle possibilità espressive che esso potrebbe offrire. Una prima sintesi penso di ottenerla a questo livello. Un’ulteriore sintesi è legata anche alla possibilità di capire, in un momento successivo, quale potrebbe essere la relazione con l’ambiente. Gli eventuali limiti e le possibilità che questo pone e offre determinano una questione che rimane sempre aperta.
Entrambe sono sintesi che appartengono al processo creativo nella misura in cui rendono possibile il suo continuo sviluppo. Attraverso di esso a che obiettivo miri?
Alla possibilità di rendere autonoma la scultura. Una meta che penso sia raggiungibile ponendo attenzione in particolare al materiale, mettendomi in ricezione e ‘ascoltando’ che cosa proviene da esso. La sua autonoma è una questione che mi interessa perché riguarda due momenti della produzione scultorea: la generazione e la elaborazione della forma.
Tenendo come riferimento proprio questa necessità di autonomia, che relazione pensi che ci sia tra il materiale e la scultura?
L’autonomia del materiale è l’autonomia della scultura. Se riesco a ottenere la prima posso arrivare alla genesi della seconda. Quando questo avviene, allora sono vicino anche alla possibilità di esprimermi al meglio. Resta, però, che nella fase di elaborazione scultorea il contesto, l’ambiente esterno a essa, non può essere in alcun modo trascurato.
C’è anche un ulteriore presupposto all’origine di questo tuo approccio alla produzione scultorea?
Sì, direi l’idea di cercare sempre di indagare il materiale sbarazzandomi di qualsiasi pretesa rispetto alle possibilità offerte dalla figurazione.
Che cosa vuoi dire?
Lavoro sul materiale lasciando che sia esso a fornirmi le indicazioni da seguire. Non sono interessato ai presupposti teorici. Cerco di pormi in maniera tale da rendere oggetto di indagine ciò che è incerto, lasciando da parte le conoscenze sull’arte, sulla produzione delle immagini ecc.
Perché questa scelta?
Vorrei trovare una sorta di neutralità operativa. Lavorare come farebbe qualcuno che non ha alcuna conoscenza specifica rispetto ai presupposti teorici attorno alla scultura e alla produzione di forme. È così che credo si possa sfruttare al meglio il materiale in direzione della sua autonomia.
Come si sviluppa questa ‘procedura neutrale’?
Necessariamente attraverso molti errori. Numerosi fallimenti che poi però mi consentono di fare scoperte e di poter trovare una stabilità direttamente nel materiale. Il fallimento diventa per me la parte più significativa della lavorazione scultorea. Attraverso gli errori sviluppo una indagine sulla forma e sulla materia. Le risorse che posso individuare derivano anche da un lavoro che, possiamo dire, è però orientato dalla semplicità.
Seguendo quest’ultima, non si rischia che la produzione di errori aumenti?
Sì, può succedere. Ma si tratta sempre di riuscire a cogliere quel che il materiale offre e di essere ricettivi rispetto alla sua naturalezza. È un po’ come se si potesse entrare in sintonia con esso via via che lo si lavora. In questo modo si individua un potenziale e su di esso è possibile sviluppare l’azione scultorea che porta poi all’opera.
Mi sembra che la tua idea di autonomia della scultura sia legata tanto al rafforzamento del materiale sul piano espressivo quanto alle libertà interpretative che questo rende possibili.
È così. L’autonomia della scultura passa attraverso il superamento dell’immagine per arrivare a focalizzarsi di più sull’atto scultoreo anziché sul risultato che si ottiene. Questo favorisce una ‘conversazione silenziosa’ tra la scultura e chi ne fa esperienza e la interpreta. Ciò è possibile proprio perché si fa a meno dell’immagine, di una forma definita e descrivibile.
Perché la scultura sia autonoma, nel tuo lavoro l’imprevedibilità svolge allora un ruolo decisivo.
L’imprevedibilità è tanto della materia quanto dello sguardo su di essa. C’è anche un carattere interpretativo che ho imparato a non sottovalutare, soprattutto considerando il mio tentativo di sottrarre ciò che produco da qualunque pretesa descrittiva. Mi piace pensare alla scultura collocandola a metà strada tra percezione e conoscenza. Tra la prima e la seconda, la scultura potrebbe rivelarsi come un momento di cesura, una alterazione. Da questa provengono numerose possibili interpretazioni, frutti della nostra capacità di produrre immaginari e suggestioni, lasciando da parte le descrizioni. Il mio lavoro sulla scultura è infatti legato anche alla possibilità di favorire un uso della immaginazione come veicolo conoscitivo.
Soffermiamoci un momento sul tema della immaginazione.
Credo che essa sia all’opera anche quando possiamo stabilire delle connessioni inaspettate. Per esempio, il titolo della mia mostra attuale – Il pianeta dove evaporano le rocce – invita a fare un percorso immaginativo che va in una direzione diversa rispetto alla dimensione acquatica alla quale appartengono le sculture esposte in essa. La lavorazione di Momentum, infatti, è avvenuta attraverso il contatto con l’acqua, mediante la mia immersione e dei materiali che ho usato nelle acque… Questa sorta di cortocircuito invita all’attività immaginativa.
L’assenza di descrizioni alla quale ti riferisci è legata anche alla tua scelta di non produrre forme decifrabili.
In parte sì. In alcuni casi però l’assenza di descrizioni è connessa anche a forme che sono parzialmente decifrabili. Per esempio, durante la residenza in Viafarini ho presentato un’opera, senza titolo, che consisteva di numerosi mattoni disposti sul pavimento. Ciascuno di essi era stato intinto nell’inchiostro blu. Tutti insieme costituivano una superficie calpestabile. Il mattone rimane mattone avendo però un potenziale suggestivo rinnovato. L’idea che una volta celeste non sia più sopra le nostre teste, ma finisca sotto i nostri piedi, è legata alla possibilità di decifrare parzialmente i mattoni. Una sorta di cielo calpestabile, presentato senza alcuna pretesa descrittiva.
La tua idea di scultura è però profondamente influenzata anche dal potenziale offerto dalla astrazione.
Mi attira l’idea di una scultura che non descriva nulla e che renda possibile la produzione di immaginari e suggestioni. Ma questo per me vuol dire anche riuscire a offrire forme decifrabili in qualsiasi contesto culturale. Forse, l’astrazione è utile per questo scopo.
Sei alla ricerca di un potenziamento o di una riduzione della materia scultorea?
Sono più incline a cercare di raggiungere il suo potenziamento, anche se spesso si tratta di attraversare momenti di necessaria riduzione. Però, nei fatti, questo vuol dire continuare a testare i limiti e le possibilità che provengono dal materiale.
Quanto conta per te l’attuale fase di sperimentazione?
Moltissimo. Soprattutto perché, attraverso di essa, riesco anche a capire meglio sia il mio lavoro di ricerca di nuovi risultati sia come mi comporto io nei confronti della scultura. Testare limiti e possibilità mi permette di riconoscere fino a dove posso insistere con il lavoro.
‒ Davide Dal Sasso
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