Dalla Siberia al pop. Intervista a Ludmilla Radchenko
Ars Antiqua, Milano ‒ fino al 3 novembre 2018. Una doppia personale accosta il rigoroso anonimato di M’horó con la popolarità dell’ex soubrette di origine siberiana Ludmilla Radchenko. Che abbiamo intervistato.
Attiva dal 2000 ma sinora rivolta solo all’antiquariato, la galleria milanese Ars Antiqua inaugura i nuovi spazi espositivi di Via Pisacane, dedicati al contemporaneo, con un sodalizio d’effetto. La mostra si intitola #untitled perché, a detta degli organizzatori, l’hashtag richiama la contemporaneità di cui i due artisti in mostra sono riflesso e che è impossibile definire prima che diventi storicizzato. Da un lato M’horó, lo scultore senza volto in più occasioni lodato da Vittorio Sgarbi, di cui la mostra include la serie inedita Red light, sculture metalliche realizzate con integrazione di luci al led. Dall’altro lato, un nome “pop” in tutti i sensi: pop come popolare, in quanto ex personaggio televisivo, e pop come artista, creatrice di opere coloratissime e sovraccariche in cui si mescolano spettacolo e pubblicità, griffe e design. Ludmilla Radchenko (Omsk, 1979) fino a una decina di anni fa è stata un volto noto ai telespettatori italiani. Dopo le apparizioni televisive e le passerelle di moda, è tornata a dedicarsi alla sua prima passione: la pittura.
Ludmilla, le opere in mostra presso Ars Antiqua sono inedite? Quando le hai realizzate e con quali tecniche?
Sono inedite in parte. Per #untitled ho riunito opere dai colori cangianti e quasi antichi che portano verso la dimensione rinascimentale. Sono un mix di diverse serie che risalgono agli anni dal 2014 a oggi, quasi tutti collage su tela e pittura a mano libera con acrilico e resina, che affrontano diversi temi e danno allo spettatore una multilettura.
Da dove deriva il tuo stile pop, e cosa intendi invece quando definisci il tuo lavoro “full art”?
La mia arte pop è narrativa rispetto al Pop che rinunciava al contenuto dando la priorità all’oggetto o a un soggetto iconico. Del resto sono nata in Siberia, area sovietica ermetica nei confronti del mondo dei consumi. FullArt è il nome del mio prodotto fashion, Siberian Soup FullArt. “Full(of)art” deriva da foulard, i miei multipli da indossare, le stampe delle mie opere in cashmere e seta, “piene d’arte”.
Secondo Andy Warhol, un artista è una persona che produce cose di cui la gente non ha bisogno, ma che lui ritiene sia una buona idea darle. Ti riconosci in questa definizione?
Penso che l’artista sia una persona che ha bisogno di manifestare il proprio mondo per condividerlo con l’esterno. È un contributo all’umanità a prescindere dalla necessità. Ma la definizione di Warhol è divertente.
Da quanto tempo dipingi e come si è evoluto negli anni il tuo lavoro?
Dipingo dall’età di sei anni, ho frequentato la scuola d’arte e poi mi sono laureata in fashion design in Russia. Qui a Milano l’attività vera e propria è cominciata dieci anni fa. L’evoluzione continua è ciò che amo del mio lavoro: ogni anno ti regala esperienze e progetti diversi. Ora posso dire di camminare con passo sicuro!
Come il mondo della moda entra nel tuo lavoro creativo? Ti porti dietro il tuo passato di modella?
Fino ai trent’anni è molto difficile definire il proprio futuro, e il mio passato da modella e personaggio televisivo ha dato alla ragazzina che ero la base per ragionare sul mio futuro ruolo. Dopo un viaggio a New York, ho riflettuto su ciò che volevo fare e come potevo evolvere, legando la mia vita all’arte. Dato che ho studiato arte e moda, collegare la mia arte al mondo fashion, contaminando altri brand nei progetti di Capsule Collection e il mio brand dei Foulards, anzi FullArts, è stato un gesto istintivo.
La Russia e in particolare la Siberia entrano nel tuo lavoro? E l’America?
Tutto ciò che vivi di persona influenza ciò che fai. Ho radici siberiane, la mia casa ormai è l’Italia, e ho sempre sognato l’America. Il sogno americano ricompare nelle mie opere, anche se la vera America l’ho scoperta qui in Italia.
Una domanda “profondamente superficiale”. Lavorare nel mondo dello spettacolo ti ha arricchito o aiutato a livello espressivo?
Mi ha dato la notorietà, ma mi ha reso più difficile il percorso artistico. Ho dovuto lottare con i pregiudizi.
Quali pregiudizi e stereotipi devi affrontare, come artista e come donna?
Essere una persona nota implica aspettative, che a volte creano pregiudizi. La gente fa fatica ad associare prestanza fisica e talento. Molti restano stupiti quando vedono il mio percorso artistico, o pensano che una mamma-chioccia come me [Radchenko ha due figli, N.d.R.] difficilmente lavori e produca sul serio. Ma ormai sono abituata e mi piace stupire.
I tuoi lavori risultano inebrianti a livello compositivo e cromatico. Ciò che crei rispecchia una tua riflessione su bellezza e armonia o è un’operazione seduttiva?
L’arte è il connubio fra la tecnica che attrae l’occhio umano e la comunicazione che tocca l’animo. La mia armonia la trasmetto sulle tele senza pensare al risultato finale. Do forma ai miei pensieri in modo istintivo.
In Italia, e in particolare a Milano, lavorano molti artisti emergenti, italiani e non, di grande caratura. Con chi di loro ti piacerebbe collaborare e perché?
Non amo particolarmente le collaborazioni, è sempre un prestare la tua creatività a qualcuno per contaminarla. Forse con Omar Hassan mi divertirei.
Secondo Warhol, “un amore immaginario è molto meglio di un amore reale”. Per Ludmilla Radchenko è più eccitante fare o immaginare?
Fare. Ma la fantasia aiuta a concentrarti sulla realtà e sentirla più profondamente.
‒ Margherita Zanoletti
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