Artisti da copertina. Parola a Sebastiano Sofia
Sebastiano Sofia nasce a Verona nel 1986 e vive a Milano. Ha svolto di recente una residenza al Maraya Art Centre di Sharjah negli Emirati Arabi Uniti che si è conclusa con una mostra personale. Nel 2015 ha svolto una residenza a Venezia presso la Fondazione Bevilacqua La Masa e due anni prima a Milano presso Viafarini. Tra le sue più recenti mostre personali segnaliamo Natural Metamorphosis, presso la Fatma Lootah Gallery di Dubai nel 2017 e, sempre nello stesso anno, è stato fra i partecipanti al festival Mangroves from the water a Umm Al Quwain (UAE).
Pittura, tronchi di palma, materiali trovati in situ, scarti: le piccole e grandi sculture di Sebastiano Sofia sono oggetti ibridi, in apparente equilibrio precario, che sembrano sempre nell’atto di mutare. Sono “paesaggi” in transizione in cui l’artista non incastra cose opposte tra loro ma, come ci dice, “oggetti che hanno vari stadi di creazione: il prodotto/il prodotto del prodotto/lo scarto del prodotto”. Non vi è per lui alcuna distinzione tra naturale e artificiale: la natura per l’artista “non è un albero o un insetto ma un modo di guardare e concepire le cose non in senso divinatorio ma tangibile”. Un suo progetto per il futuro? Pensare a grandi lavori ambientali.
Quando hai capito che volevi fare l’artista?
Non mi ricordo.
Hai uno studio?
Quando posso.
Quante ore lavori al giorno?
Più o meno sempre.
Preferisci lavorare prima o dopo il tramonto?
La mattina.
Che musica ascolti, che cosa stai leggendo e quali sono le pellicole più amate?
Ascolto un po’ quel che capita. Ultimamente sto rileggendo alcuni testi come Il mito di Sisifo di Albert Camus e anche tanta poesia. Leggo più e più volte Eugenio Montale. I primi film a cui penso sono The Tree of Life di Terrence Malick, I Re delle Terre Selvagge di Benh Zeitlin e Post Tenebras Lux di Carlos Reygadas.
Un progetto che non hai potuto realizzare ma che ti piacerebbe fare.
Inutile “piangere sul latte versato”. Spero di realizzarli tutti, prima o poi.
Qual è il tuo bilancio fino a oggi?
“È bravo ma dovrebbe applicarsi di più.”
Come ti vedi tra dieci anni?
Più vecchio e più grasso.
Lavori sul concetto di ibrido, sia nell’uso dei materiali che nella resa formale finale. Se ti dico metamorfosi…
Credo che ogni opera, ogni azione e ogni modo di vivere l’esistenza siano spinti da un desiderio, da un’ambizione. Penso a un essere organico che si evolve e muta insieme all’habitat e conseguentemente insieme al tentativo che esso fa per mettersi in pratica. Questo tentativo è un atto naturale e oserei dire quasi un bisogno biologico. Accettare l’instabilità del desiderio e la forza del tentativo è per me metamorfosi. L’opera altro non è che l’accettazione di questo intento e va oltre la dimensione fisica.
L’equilibrio e la ricerca di un bilanciamento tra diversi elementi sembrano essere questioni importanti per te. Quanto è influente la natura nella tua ricerca?
Accettare quell’instabilità di cui ti ho appena parlato è forse oggi più difficile da ammettere e abbracciare, ma questa “semplicità” ci porta a uno stadio di “vera natura” dove forse la de-evoluzione è una vera evoluzione che ci permette di entrare in sintonia con la primordialità del nostro essere, con quell’emozione più latente, semplice e pura che permane da secoli, che sia essa per un paesaggio, per una nascita, per un dolore o per una gioia. Natura non è, per me, un albero o un insetto ma un modo di guardare e concepire le cose, non in senso divinatorio ma reale e tangibile. Si tratta di sentire e sapere di essere semplicemente un prodotto di questa natura e, come prodotto, di essere quindi anche creatore allo stesso livello di un ragno che tesse una ragnatela o di un uccello che prepara il nido.
Naturale e artificiale nelle tue opere più che in contrapposizione sembrano interscambiabili. Di primo acchito è molto spesso difficile capire le tecniche che usi. Utilizzi in prevalenza materiali trovati, ad esempio tronchi di palma. Cosa ti colpisce e in base a cosa li selezioni?
Quello che noi chiamiamo tecnologia o artificio altro non è che prodotto naturale perché creato da noi e per noi. Nel mio lavoro non “incastro” cose opposte tra loro, ma oggetti che hanno vari stadi di creazione: il prodotto / il prodotto del prodotto / lo scarto del prodotto ecc. Tutto questo grande insieme crea dentro di me un paesaggio, un collage di mondo che sta fra il tattile e il metafisico. Il mio intento sta semplicemente nel descriverlo, un po’ come gli uomini delle caverne e i loro graffiti.
Hai svolto di recente una residenza al Maraya Art Centre di Sharjah negli Emirati Arabi che si è conclusa con una mostra personale. Che cosa ti è rimasto di quell’esperienza?
Oltre che a gettare un seme in un nuovo Paese, tanta voglia di “complicarmi la vita”. È stato abbastanza difficile approcciarmi a una realtà sconosciuta e che non aveva idea di come fosse il mio lavoro. Tuttavia, questa “difficoltà” mi ha dato grande motivazione e voglia di fare cose sempre più difficili. Sto pensando a grandi lavori ambientali.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Si tratta di una nuova serie di sculture che sto realizzando: delle lastre in cemento che accennano nella forma a dei corpi innaturali. Il corpo non ha identità definita oggi e deve apparire indeterminato o accennato, inserito in uno spazio-tempo indefinito. Sta anche crescendo dentro di me sempre di più una sorta di “primitivismo” nell’approcciarmi al lavoro – penso a Basquiat e alle sculture di Picasso. Mi piacerebbe anche riuscire a creare opere che stiano fra la scultura e la pittura, che siano entrambe le cose ma nessuna delle due. Anch’esse indefinite e in transizione.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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