Versus. Il dibattito tra naturale e artificiale
Attraverso le riflessioni di due curatori, la rubrica “Versus” si propone di analizzare la relazione tra naturale e artificiale nella pratica artistica contemporanea. Andrea Lerda e Domenico Quaranta si interrogano sull’opportunità di esplorare le sconfinate potenzialità immaginative proprie delle nuove tecnologie, rimanendo entro i limiti imposti dalla biologia e dall’etica ambientale.
Andrea Lerda è curatore e fondatore del progetto online Platform Green, interessato in modo particolare alle relazioni tra arte, natura e paesaggio e all’impatto che le dinamiche del mondo moderno hanno sull’uomo e l’ambiente naturale. Domenico Quaranta è un critico e curatore da sempre attento a tematiche come lo sviluppo della cultura digitale, l’influenza dei linguaggi multimediali sui nuovi orizzonti comunicativi e lo studio delle prospettive di ibridazione tra uomo e macchina. Protagonisti di questo capitolo di Versus, proveranno a gettare luce sulle risorse e le contraddizioni di un mondo in cui virtuale e reale tendono a sovrapporsi.
Repertori retorici come quelli collegati, da un lato, all’illusione positivista di un progresso inarrestabile e privo di “effetti collaterali” e, dall’altro, al mito rousseauiano del “buon selvaggio” richiamano alla mente epoche remote e dovrebbero essere del tutto sorpassati. Eppure abbiamo visto fiorire in tempi recenti posizioni integraliste in campo ambientalista (che talvolta sfiorano il primitivismo) e interpretazioni altrettanto oltranziste (nonché fantasiose) del postumanesimo. Che ruolo può avere la ricerca artistica nel tentativo di recuperare una visione più lucida ed equilibrata dei rapporti tra evoluzione tecnologica e rispetto della natura?
Domenico Quaranta: Anche se l’arte può avere una funzione (un senso, una responsabilità), preferisco non attribuirgliene mai una a priori; anche perché spesso l’arte e l’artista riescono a produrre risultati meravigliosi, e a “insegnarci” qualcosa, proprio vivendo sulla propria pelle, in maniera irresponsabile, le ipotesi più radicali, polarizzate e oltranziste, immergendosi nell’oscurità al posto nostro. In quei casi, è la capacità dell’arte di metterci a confronto con l’estremo ad agire da monito e a indurci, anche senza che sia sua intenzione, a una visione più lucida e equilibrata.
Andrea Lerda: Mi sono interrogato più volte sull’effettiva capacità dell’arte di veicolare messaggi così importanti come quelli in materia di etica ambientale e sul suo effettivo potere d’azione. Non sono così ottimista. Tuttavia, in quella che Amitav Ghosh definisce come l’era della “Grande Cecità”, la ricerca artistica e i progetti espositivi in modo particolare possono avere un ruolo importante. Se riescono a mettere lo spettatore al centro, possono diventare l’occasione per una riflessione sulla pratica dello sguardo, in un tempo in cui esso si fa cieco e in cui perde di consapevolezza, anestetizzato dall’universo digitale in cui siamo immersi.
Il superamento delle logiche espositive legate agli spazi tradizionali, neutri e delimitati, è un trend ormai consolidato, che le sperimentazioni nel campo della net art e dell’arte ambientale hanno contribuito a rafforzare. Per quali motivi credete si vada affermando l’esigenza di esperienze dirette, prive di filtri, connesse a pratiche di sconfinamento dell’arte nei contesti di vita, siano essi virtuali o naturali? In quali casi sarebbe invece auspicabile valorizzare il ruolo di mediazione offerto da istituzioni culturali e figure professionali opportunamente formate?
Domenico Quaranta: Il white cube come principale contesto di manifestazione di un’arte destinata a una élite economica e intellettuale è un fatto storico, che ha avuto un inizio e avrà fine quando cambierà il ruolo sociale dell’arte. Ultima di una serie di tentativi fatti, nel Novecento, per sfuggire a questa collocazione obbligata, la net art negli Anni Novanta ha sperimentato i vantaggi di un contatto diretto con lo spettatore, al di fuori dei sistemi di valorizzazione (culturale ed economica) codificati. Poi gli artisti sono tornati a cercare il dialogo con le istituzioni culturali e con i professionisti dell’arte. Ma Internet, pur nella sua evoluzione – e, sotto certi aspetti, involuzione – è rimasto, come la strada, uno spazio pubblico, in cui l’arte si può manifestare, ed esperire, senza mediazioni. Per lo più viene vissuto come un contesto transizionale, in cui cominciare a esistere come artista in attesa che i “mondi dell’arte” si accorgano della tua esistenza. Perché questo rapporto cambi, è l’intero nostro modo di concepire l’arte che deve cambiare.
Andrea Lerda: Nonostante le grandi opportunità che l’universo digitale oggi ci offre, credo che il concetto di libertà sia ogni giorno più in pericolo. Anche, e soprattutto, se parliamo di cambiamento climatico. Credo che le dinamiche politiche ed economiche attuali e passate (che nascono dalla cultura imperialista) abbiano condotto l’umanità a una venerazione del culto del progresso e dell’individualismo a discapito di parole come etica, responsabilità collettiva e crescita sostenibile. Se, come ha scritto Zygmunt Bauman: “La nostra vita è un’opera d’arte [e] per viverla dobbiamo porci delle sfide difficili”, allora credo che istituzioni museali, grandi mostre e appuntamenti internazionali come le biennali debbano farsi carico di questo sguardo en avant che solo di recente sta emergendo. L’arte, che è vita, deve riflettere uno sguardo disincantato sul mondo e, oltre ad assecondare il bisogno di ricerca e di “avanguardia”, diventare politica attenta per il bene comune.
Pensare a una perfetta sinergia tra arte, tecnologia e scienza, finalizzata alla progettazione di un futuro ecologico e sostenibile, è pura utopia o uno scenario possibile? Vi vengono in mente esempi virtuosi?
Andrea Lerda: Noto con piacere che un numero sempre maggiore di artisti lavora in stretta sinergia con ricercatori e scienziati. Questo testimonia un avvicinamento inevitabile del pensiero umanistico e di quello scientifico, nel comune bisogno di agire sul senso di responsabilità e di consapevolezza. Se da un lato questa relazione può contribuire a produrre soluzioni concrete per un futuro sostenibile, dall’altro deve però costituire un modello per il pensiero ecologico e il do-it-together. Tomás Saraceno è in questo senso un esempio in grado di unire estetica e funzionalità. Con il recente lavoro Aerocene, offre una riflessione – che si traduce in proposta a tutti gli effetti – sull’idea di spostamento sulla Terra senza l’utilizzo di carburanti fossili. In Italia, Federica Di Carlo e Andreco lavorano invece a stretto contatto con ricercatori di tutto il mondo per progettare un nuovo immaginario collettivo, fondamentale tanto quanto l’individuazione di soluzioni effettive, che sia in grado di produrre un futuro ecologico e sostenibile.
Domenico Quaranta: L’idea che scienza e tecnologia possano “curare” i problemi che generano è una costante del pensiero tecnofilo. Sicuramente ricerca e innovazione ecosostenibile possono aiutare ad aggiustare gli equilibri che abbiamo rotto, magari distruggendone altri. L’arte, tecnologica o meno, può aiutare sia sensibilizzando su alcune questioni, sia proponendo soluzioni creative. Mi vengono in mente alcuni progetti di Olafur Eliasson, come Little Sun, la lampada solare che porta la luce dove manca l’elettricità. Ma anche i progetti online della catalana Joana Moll, che rendono visibile la quantità di CO2 generata dalle nostre visite a Google ogni secondo e il numero di alberi necessari per assorbirla.
In ottobre la prima opera realizzata interamente da un algoritmo è stata venduta in asta da Christie’s. Concluderei con un sintetico commento sul caso Obvious e sulle possibili applicazioni dell’Intelligenza Artificiale in campo artistico.
Andrea Lerda: Forse ci troviamo di fronte a una nuova forma di pratica duchampiana 4.0. Oggi come allora, la critica rivolta agli Obvious è relativa alla definizione stessa di opera d’arte. Immaginare un futuro in cui essa verrà creata da algoritmi (posto che sia ciò che vogliamo veramente), può coincidere con l’immaginare un futuro in cui l’arte sarà definitivamente mescolata con la scienza e con la tecnologia. A quel punto, probabilmente, lo stesso concetto di arte sarà mutato.
Domenico Quaranta: Trovo molto deprimente che, nel cinquantesimo anniversario di Cybernetic Serendipity (ICA, Londra 1968), ci sia ancora qualcuno in grado di smerciare in questo modo l’arte nata dalla collaborazione tra l’uomo e il computer. Non esiste, ad oggi, un’Intelligenza Artificiale in grado di produrre arte (e, quando esisterà, non credo che sarà Christie’s a informarcene): esistono software che, opportunamente istruiti, riescono a produrre un’immagine derivata da altre immagini. È un fenomeno interessante, che artisti di calibro – da Trevor Paglen a Pierre Huyghe – hanno esplorato, e che al di là di questo insignificante fatto di cronaca spero che continuerà a produrre opere significative.
‒ Vincenzo Merola
Versus#1 Christian Caliandro vs Ivan Quaroni
Versus#2 Sergio Lombardo vs Pablo Echaurren
Versus#3 Vincenzo Trione vs Andrea Bruciati
Versus#4 Chiara Canali vs Raffaella Cortese
Versus#5 Antonio Grulli vs Chiara Bertola
Versus#6 Sabrina Mezzaqui vs Giovanni Frangi
Versus#7 Alice Zannoni vs Matteo Innocenti
Versus#8 Gian Maria Tosatti vs Luca Bertolo
Versus#9 Lorenzo Bruni vs Giacinto Di Pietrantonio
Versus#10 Alessandra Pioselli vs Pietro Gaglianò
Versus#11 Marinella Senatore vs Flavio Favelli
Versus#12 Renato Barilli vs Ilaria Bignotti
Versus#13 Emilio Isgrò vs Marcello Maloberti
Versus#14 Lorenzo Balbi vs Alberto Zanchetta
Versus#15 Giuseppe Stampone vs Nicola Samorì
Versus#16 Domenico de Chirico vs Lorenzo Madaro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati