Dialoghi di Estetica. Parola a Riccardo Arena
Le opere di Riccardo Arena sono sviluppate mediante progetti indipendenti a lungo termine elaborati in diversi Paesi del mondo. Contenuti e immaginari prendono forma attraverso l’ordito di ricerche ed esperienze di viaggio che lo hanno portato a creare lavori in Cina, Argentina, Bolivia, Russia, Iran, Armenia ed Etiopia. Le sue opere sono state esposte in diverse istituzioni tra le quali: museo MAXXI, Roma; Irish Museum of Modern Art, Dublino; Istituto Italiano di Cultura di Buenos Aires, Londra e Addis Abeba; Viafarini, Milano; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Museo del Novecento, Milano; MAGA, Gallarate. Il dialogo si sviluppa attraverso un confronto sul rapporto tra immagine e parola e sull’esplorazione di possibili modalità espositive e di condivisione.
La dimensione narrativa e quella visiva caratterizzano il tuo lavoro. Che relazione c’è tra le due e che cosa le origina?
Normalmente le due dimensioni sono interdipendenti e originate da intuizioni che possono essere di diverso tipo e che mi portano spesso a compiere periodi di viaggio di ricerca e riflessione anche della durata di anni. Periodi che contribuiscono alla creazione di vasti immaginari che considero essenzialmente come delle architetture che orchestrano armonicamente la molteplicità di visioni e significati.
Che rapporto c’è tra le tue opere e gli immaginari?
Le opere sono una articolazione degli immaginari, ne sono una naturale conseguenza.
Come si generano gli immaginari?
Quando lavoro alle ricerche che alimentano i miei progetti accumulo numerosi materiali e suggestioni nell’attesa di un momento specifico: una specie di ‘palesamento’ non predeterminato, che ha la capacità di collegare in maniera più profonda tutte le ricerche e le suggestioni frammentarie accumulate nel tempo, lasciando che si organizzi autonomamente una sorta di trama.
Come la potremmo considerare questa trama?
Come un momento in cui si rivela l’immagine generale del lavoro da compiere e all’interno della quale appaiono nitidi i punti e le tensioni direzionali. La trama è di capitale importanza principalmente perché circoscrive tutte le investigazioni precedenti fungendo così da mappa per lo sviluppo del progetto.
La sua funzione è determinata da una oscillazione tra parola e immagine o anche da altri fattori?
È anche una questione di come il lavoro può essere articolato. In particolare, credo che un fattore decisivo sia l’ampliamento delle esperienze personali che contribuiscono alla strutturazione della mappa determinandone sia i caratteri visivi sia quelli narrativi.
Proviamo ad approfondire la strutturazione della mappa.
L’articolazione di un’opera implica che si possano anche definire uno spazio e un tempo che rendano possibile la sua investigazione ed esplorazione. Spesso, la mappa dà origine a un lavoro o a una mostra che riescono a trasmettere solo alcuni dei suoi elementi. L’aspetto importante è che poi questi primi elementi possono diventare anche nuovi e altri punti di riferimento per i lavori successivi.
Possiamo dire allora che la mappa sia una sorta di matrice, uno schema di riferimento?
Sì, uno schema di riferimento che prende la propria forma progressivamente, fungendo da bussola per orientarsi nell’immaginario sotteso alle successive formalizzazioni.
Considerando il ruolo dello schema, la complessità degli immaginari e delle loro formalizzazioni, che rapporto hai con la dimensione espositiva?
Nel tempo mi sono accorto della necessità di introdurre all’interno dei progetti conferenze, coinvolgendo anche altri ricercatori, di tenere dei laboratori per condividere pubblicamente le ricerche sul processo metodologico e i materiali che lo hanno ispirato. Sono tutti elementi che considero come parte integrante del lavoro per donare una visione più profonda e articolata dell’immaginario, non solo sul piano espositivo.
E con le immagini, che rapporto hai?
Le immagini sono compagne d’avventura da molto tempo, ho iniziato presto a disegnare e successivamente mi sono dedicato molto anche al collage, all’animazione e alla regia. Ricordo che il momento più importante è stato quando ho avuto l’occasione di leggere un Dylan Dog – precisamente, il numero 8, Il ritorno del mostro, disegnato da Luigi Piccatto – che era stato proibito a un mio cugino troppo giovane per letture del genere. Quando ho visto il rapporto tra immagine e parola, la distribuzione degli spazi sulle tavole… sono rimasto folgorato!
Torniamo alla dimensione narrativa.
Nonostante sia spesso elaborata non linearmente, la dimensione narrativa è intimamente legata a quella visiva. Nei miei progetti trova il suo nutrimento in particolare attraverso le investigazioni e le esperienze di viaggio.
Alla luce di questa impostazione ci sono tre elementi che credo siano centrali nel tuo lavoro: il viaggio, la traccia e l’archivio. Che importanza hanno per te e come lavori in rapporto a essi?
Questi elementi diventano centrali soprattutto per lo sviluppo dell’immaginario e per me sono essenzialmente degli strumenti. Per esempio, il mio interesse per gli archivi, le accumulazioni e le catalogazioni è subordinato alla creazione di un ambiente organizzato entro il quale è possibile osservare la relazione tra i contenuti dei materiali.
Questa relazione che cosa comporta?
I materiali accumulati durante la ricerca non sono qualcosa di inerte e statico. Essi celano le linee guida di sviluppo. Per riconoscerle è importante che i materiali entrino in relazione favorendo delle connessioni e lasciando che se ne riconoscano delle altre. Questo innesca un processo aperto che fornisce le indicazioni anche per successive relazioni. Il lavoro prenderà quindi forma sulla base di questi legami determinati da quel che i materiali ‘raccontano’.
Che cosa sono queste ‘linee guida di sviluppo’ che i materiali possono offrire?
Linee di forza interne che si cristallizzano in immagini nascoste, veicoli di significati più intimi. Questo aspetto riguarda anche il viaggio e i suoi paesaggi, principalmente perché gli ambienti procedono per riconoscenza: una risonanza tra paesaggio geologico e paesaggio psichico.
Come lo descriveresti questo rapporto tra paesaggi?
Come se si riscoprisse qualcosa originariamente depositato nella nostra memoria, che è stato dimenticato nel corso del tempo. Quando entriamo in risonanza con un ambiente particolare, credo che la meraviglia sia originata da una specie di reminiscenza; una forza sottile che tesse i legami tra cultura e paesaggio, due espressioni di una medesima tensione. Al riguardo sto sviluppando un progetto sulle mappe ispirato dall’approccio cartografico di alcune culture nordeuropee. Per esempio, le antiche popolazioni Sami qualvolta si trovavano a esplorare un nuovo territorio si recavano sulle battigie dei fiumi per studiare la conformazione delle rocce. Essi pensavano che le forme, le crepe e le peculiarità delle superfici fossero delle rappresentazioni cartografiche miniaturizzate del territorio circostante, non solo a livello spaziale ma anche cosmologico e temporale.
Insieme a quella sull’ambiente, nei tuoi lavori si riconosce anche una riflessione di natura antropologica.
Diciamo che, toccando diversi aspetti, discipline e punti di vista all’interno dei miei progetti, si creano delle riflessioni che potrebbero essere vicine all’antropologia. Anche se, non avendo una formazione in ambito antropologico, queste riflessioni sono piuttosto una conseguenza dell’esperienza diretta del lavoro di creazione degli immaginari, un lavoro che è votato principalmente a essere veicolo di scoperta personale.
Le tue opere sembrano essere singole espressioni di un progetto ben più ampio.
Sono d’accordo con te. Quando mi chiedono che cosa faccio, spesso rispondo chiamando i miei lavori ‘quadri compositivi’. Un termine con cui riesco a indicare sia l’aspetto che hai individuato sia la mia necessità di trovare un ordine nel lavoro.
Entrambi sono aspetti cruciali anche per uno dei tuoi ultimi progetti, il libro LuDD! Topografia della luce, che lascia trasparire in chiave narrativa il percorso che anima le tue ricerche.
L’elaborazione di LuDD ha previsto la scrittura di un libro composto da ventuno capitoli, un poema metafisico di carattere narrativo. Esso sarà la base per le successive formalizzazioni. Il progetto si articolerà in installazioni, workshop e letture sotto forma di ‘ambienti narrativi’. Attraverso la somma di biografie, teorie scientifiche e filosofiche, mitologie ed esperienze, il manoscritto narra la genesi e il collasso di un Tappeto filato di luce sonora, nelle cui trame prendono vita geometria, tetragiardini, architetture e miraggi di coscienza. Un ulteriore ampliamento di quella possibile articolazione del lavoro di cui parlavamo prima.
‒ Davide Dal Sasso
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