Apre il nuovo centro d’arte ICA Milano. Intervista esclusiva con Alberto Salvadori
Fra una decina di giorni apre al pubblico ICA – Istituto Contemporaneo per le Arti. Un altro tassello nella sempre più composita offerta culturale milanese. Tutte le caratteristiche, le novità, i programmi nelle parole del suo direttore artistico, Alberto Salvadori, che dopo tante esperienze in istituzioni, enti e musei in tutt’Italia, approda a Milano.
Come è germinata l’idea di aprire un Istituto Contemporaneo per le Arti?
ICA Milano è un istituto contemporaneo per le arti e l’idea è nata e si è sviluppata negli ultimi due anni. Nasce da un gruppo di persone mosse da passioni comuni: innanzitutto quella per l’arte, ma anche da un forte senso civico e dalla volontà di fare e creare qualcosa per gli altri. Insieme abbiamo deciso di iniziare questo progetto.
Come è strutturata l’organizzazione? Ipotizzo: alcuni collezionisti che hanno finanziato l’operazione e tu che fai il direttore artistico. Se è giusto, chi sono i mecenati dietro al progetto?
Siamo una fondazione privata non profit. Le persone che hanno dato vita a ICA Milano sono Lorenzo Sassoli de Bianchi, Enea Righi, Giancarlo Bonollo, Bruno Bolfo e il sottoscritto. Siamo tutti soci e operiamo pro bono. Abbiamo inoltre due collaboratrici eccellenti: Chiara Nuzzi e Margherita Rossi. Fin dall’inizio ci hanno dato una mano amici che hanno la stessa nostra passione per questo progetto come hanno potuto e voluto: Franco Broccardi, Luciano Giorgi, Paola Manfredi, Damiana Leoni, Dallas (Francesco Valtolina e Kevin Pedron), Ivan Frioni e altri ancora. È un progetto inclusivo dove tutti possono trovare spazio in termini di aiuto e collaborazione.
Vi siete costituiti come fondazione. Pensate di lavorare sul fundraising a prescindere dalla presenza di mecenati tra i fondatori o da quel punto di vista siete a posto? Come è immaginata la durabilità e la sostenibilità del progetto?
Dopo aver fatto tutte le indagini del caso, abbiamo optato per la costituzione di una fondazione, rivelatasi al momento lo strumento migliore, per operare in maniera chiara e trasparente nel terzo settore, per quanto concerne l’ambito culturale. Il fundraising è appena all’inizio e siamo contenti anche perché si sono avvicinate importanti aziende a darci sostegno.
Il progetto si basa su un principio molto semplice: la cultura come bene comune e quindi sostenibile da chiunque voglia farlo. La durabilità è nei nostri pensieri lunga e ICA Milano è progettata per essere ecosostenibile, quindi non costa molto.
Le figure ai vertici al progetto (Alberto Salvadori, Lorenzo Sassoli de Bianchi…) sembrano avere una radice di estrazione per certi versi “bolognese”. Come mai avete scelto Milano?
In realtà proveniamo tutti da differenti aree geografiche d’Italia e la scelta di Milano è stata dettata da più fattori: è una città solidale e inclusiva; inoltre, chi l’ha governata e chi la governa anche adesso lo sta facendo bene, nel senso che esprime e attua una vera progettualità sulla città, non pensando al presente ma cercando di costruire il futuro. Inoltre la pluralità di fondazioni e realtà operanti in tutti gli ambiti della cultura rende il contesto ancora più attraente. La pluralità è ricchezza di pensiero e accoglienza, e a noi interessano entrambi i concetti.
Come mai avete scelto il particolare quartiere Ripamonti? Siamo lontani dal centro, lontani dalla metropolitana ed è pieno di cantieri, depositi e furgoni che pare di stare nel Queens…
Forse proprio perché è uno dei luoghi in divenire come noi? Mi piace l’assonanza con il Queens, penso che in termini immaginifici tu abbia centrato il parallelismo. Noi siamo all’interno di un cortile dove da anni esistono varie attività commerciali: furgoni, capannoni pieni di merci, un laboratorio per allestimenti, una confezione e altro ancora. Abbiamo fatto una scelta precisa di non essere fronte strada con un ingresso dedicato bensì di condividere con altri lo spazio di lavoro.
In che modo gestirete la vostra vicinanza con la Fondazione Prada?
In maniera molto serena e semplice. Un rapporto di stima e gratitudine per quello che fanno e hanno fatto e questo pensiero lo estendo a tutte le altre realtà milanesi che da anni operano in città. Grazie alla loro altissima professionalità e capacità progettuale, tutta la città è cresciuta e si è arricchita culturalmente. Molte delle persone che lavorano in Fondazione Prada sono ottimi professionisti e cari amici; con alcuni di loro abbiamo condiviso fin dal primo momento il nostro progetto e non potevamo avere vicini migliori.
Al di là dell’aspetto un po’ rude, il quartiere nasconde delle eccellenze. La Reading Room, gli stilisti di Motelsalieri, il Madama Hostel e poi coworking, spazi per la ricerca e l’artigianato. Come immaginate i rapporti con queste realtà del territorio?
Li immaginiamo di curiosità e conoscenza reciproca che nascerà lentamente nel tempo, anche se il Madama Hostel è già diventato uno dei luoghi che amiamo in zona.
Siete in una zona che si trasformerà moltissimo: il grande progetto immobiliare Symbiosis è in fase di sviluppo, nasceranno poi moltissime residenze universitarie. Sarete parte attiva anche a livello per così dire “urbanistico”?
Al momento non ci abbiamo pensato.
“Abbiamo scelto Milano perché chi l’ha governata e chi la governa anche adesso lo sta facendo bene, nel senso che esprime e attua una vera progettualità sulla città, non pensando al presente ma cercando di costruire il futuro”.
Veniamo più nello specifico al vostro spazio. Ci racconti le caratteristiche che ha? Faccelo immaginare ancor prima di vederlo.
Lo spazio è un vecchio edificio industriale degli Anni Trenta che fino a circa vent’anni fa ha svolto la sua funzione. Poi era stato abbandonato e noi lo abbiamo preso in pessime condizioni. Ci è piaciuto subito sia come è disposto internamente sia come è collocato. Sono due piani per un totale di 700 mq che hanno subìto – in accordo con Luciano Giorgi, l’architetto – un restauro molto leggero, quasi invisibile. Abbiamo cercato di lasciare il più possibile presente la sua storia, la sua vita prima di noi.
Vi definite spazio interdisciplinare. In che senso?
Nel senso che, essendo un istituto contemporaneo per le arti, svilupperemo un programma di attività, ricerca e studio non dedicato prevalentemente o esclusivamente alle arti visive. Andremo a cercare i punti di contatto e la loro precisa armonizzazione tra le differenti pratiche e ricerche che svilupperemo.
Parliamo un po’ della mostra inaugurale: Apologia della Storia – The Historian’s Craft. Come l’avete pensata, come ci avete lavorato, cosa volete dirci con questa selezione di artisti e questa mostra tu e Luigi Fassi che la curate?
È una mostra collettiva con 13 artisti internazionali raramente presentati in Italia. La mostra è ispirata a una figura centrale della cultura moderna, Marc Bloch, che ha aperto la strada a intere generazioni di studiosi, artisti e pensatori, insegnandoci a riflettere sulle molte e necessarie possibilità di vedere, indagare, raccontare e non giudicare la realtà attorno a noi. È stato ed è un grande amore dai tempi dell’università, assieme a Braudel, Le Goff, Ginzburg e altri. Con Luigi Fassi condividiamo da anni queste passioni e ci siamo sempre detti che un giorno avremmo fatto una mostra a lui dedicata; la sua metodologia e la sua visione sono estremamente attuali e, anche inconsapevolmente, generazioni di artisti, studiosi e critici gli sono in qualche modo debitori. Per noi è un bel modo di iniziare.
Questa mostra durerà fino a metà marzo. Quale sarà il ritmo delle prossime mostre? Vi assesterete sulle tre mostre l’anno?
Il ritmo delle mostre sarà al massimo di quattro l’anno. Al momento abbiamo un programma che arriva fino al 2020 compreso, ma lo sveleremo di volta in volta.
Quanta importanza avranno gli appuntamenti non definibili “mostre”.
Molta, proprio per quanto detto sopra.
Quando hai progettato ICA a quale spazio internazionale hai pensato? A quale spazio vorresti che si avvicini ICA?
Ho pensato molto all’ICA di Londra, che frequento, data la mia età, da più di trent’anni. Poi amo molto Artists Space e Participant a New York e la prima versione del KW di Berlino. Se penso all’Italia non posso non citare il Cpa di Firenze di moltissimi anni fa o l’esperienza del Link di Bologna. Poi il sogno proibito: il SESC Pompeia a San Paolo, il miglior posto al mondo, dove convive in senso totale la completa forza e capacità espressiva dell’individuo, all’interno di un sistema architettonico che a mio avviso rasenta la perfezione.
Insomma, un po’ di tutto questo. Vorrei che ICA Milano fosse uno spazio leggero e spensierato. Sono convinto che la cultura si possa fare anche senza un forte carico di gravitas, intesa come pesantezza. Il tutto con una metodologia e delle regole, che di tanto in tanto si possono anche infrangere.
ICA si trova in una zona piuttosto isolata. Avete – come la Fondazione Prada – puntato anche su una parte di ristorazione e accoglienza per i visitatori?
Purtroppo al momento non siamo in grado di offrire un ristoro ai nostri visitatori e me ne dispiaccio molto, sia perché non potremo coccolarli del tutto sia perché, da quando ero studente negli Anni Ottanta, ho sempre vissuto e pensato al cibo come un elemento determinante, fondamentale nella vita delle persone… Ho fatto la mia prima tessera Slow Food nel 1990, conservo ancora la prima guida delle Osterie d’Italia pubblicata quell’anno, e non mancavo mai il giovedì del Manifesto con il Gambero Rosso, che seguo tuttora.
Anche se hai detto che svelerai il programma volta per volta, cosa riuscite ad anticiparci del prosieguo del programma in questo 2019?
A marzo avremo due mostre, una dedicata a Hans Josephsohn e una alla storia della Galleria dell’Ariete. Questa piccola mostra è la prima di un appuntamento annuale che dedicheremo alla storia delle gallerie italiane attraverso i loro archivi. Stiamo lavorando a una scuola di filosofia per l’arte, a un programma cinematografico, a una serie di programmi estivi e a progetti inclusivi dedicati a chi soffre di malattie del sistema nervoso e ai loro parenti. Avremo modo di riparlarne!
– Massimiliano Tonelli
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