Art people voices. Parola a Carlo Prada
Carlo Prada (classe 1975, vive a Milano) è un giovane collezionista e art advisor. Affascinato da opere complesse e “disturbanti”, in meno di dieci anni ha raccolto una piccola e raffinata collezione di artisti internazionali.
Quando hai iniziato a interessarti all’arte contemporanea e al collezionismo?
Mi sono avvicinato al mondo dell’arte per approssimazioni progressive. Il primo acquisto risale al 2010: a Liste mi sono invaghito di una Polaroid di Haris Epaminonda. Il soggetto sono degli utensili preistorici, lame o coltelli, forse le punte di una freccia viste dall’alto, in una composizione quasi astratta. Vista la mia laurea in archeologia, forse mi ha affascinato anche per un aspetto legato al mio vissuto. Con Rodeo, la galleria da cui il lavoro proviene, sono ancora in contatto e Sylvia Kouvali, la fondatrice, è non solo una cara amica, ma anche una delle galleriste che rispetto di più.
Cosa ti colpisce in un’opera? E quali artisti segui di più recentemente?
Ho gradualmente attribuito un valore crescente all’elemento di “fastidio”. Quello che in passato collezionisti molto più navigati di me hanno sempre sostenuto, da Ileana Sonnabend a John Waters passando per Eugene M. Schwartz, ossia “you buy what you hate”, è per me un criterio importante nel momento in cui mi relaziono a un’opera d’arte. Sento sempre l’esigenza di un elemento di rottura, qualcosa che faccia scattare un cortocircuito all’interno del mio sistema di conoscenze e certezze e che lo metta in crisi. Mi interessa creare un dialogo tra i lavori che possiedo, provo sempre a visualizzarli in una prospettiva unitaria quando considero un’eventuale acquisizione, a procedere secondo uno schema di richiami e di rintocchi che, inutile dirlo, probabilmente vedo solo io! Infine, c’è l’ossessione, conditio sine qua non per inseguire e stabilire, se necessario, un rapporto duraturo con qualsiasi opera. Tra gli artisti che seguo di più al momento ci sono Peter Wächtler, una sorta di moderno Daumier che ha assorbito la lezione della comédie humaine di Balzac, e Mathieu Malouf che, in modo irriverente e beffardo, fa il verso a colossi come Kippenberger e Carpenter, inserendosi nella tradizione del “Bad Painting”. L’ultimo lavoro acquisito è invece una fotografia di Heji Shin: ritrae una donna mentre partorisce, un Courbet rivisitato dalla carica esplosiva.
I tuoi gusti sono cambiati nel corso degli anni?
Sì, assolutamente. Collezionare implica il concetto di evoluzione che riguarda ora il gusto, ora il contenuto. È come “scrivere” un diario personale che pagina dopo pagina si arricchisce di esperienze, o una pièce teatrale che si infittisce di voci e dialoghi e non arriva mai a un epilogo. La stasi, e così pure una conclusione, sarebbero del resto un anatema. La curiosità invece, e una buona dose di ossessione, sono qualità dinamiche sempre “affamate” da prediligere, i veri motori all’origine del tutto. I miei gusti si sono ampliati, hanno incorporato artisti e pratiche che forse, qualche tempo fa, avrei considerato ostici e che ora invece preferisco sfidare. Così pure è cambiato lo scenario, sempre più ricco di proposte e iniziative, fiere e occasioni di confronto frutto di formule sperimentali, spesso di successo. Barcamenarsi non è sempre facile, ma una volta che si possiedono delle linee guida, non per forza condivise, la selezione diventa più naturale.
Quali gallerie riconosci come tuoi punti di riferimento?
Tendo a privilegiare le gallerie dotate di un forte manifesto estetico e di una coerenza di pensiero. Buchholz, Reena Spaulings, Lars Friedrich, House of Gaga, Kraupa Tuskany Zeidler, Essex Street, Carlos Ishikawa, per citarne solo alcune. A Milano, trovo molto interessante il programma di Federico Vavassori.
Frequenti altri collezionisti/fai parte di associazioni di collezionisti?
Il dialogo, il confronto e lo scambio con un ristretto circuito di collezionisti illuminati, appassionati e informati sono fondamentali per me.
Qual è l’opera della tua collezione a cui sei più affezionato?
Una scultura di B. Wurtz, un piccolo lavoro realizzato con turaccioli di sughero, filo metallico e rete da pesca che si compongono tra loro su un microscopico basamento di marmo bianco. L’insieme è fragile, effimero, ma i vari materiali derivati dalla banale quotidianità assumono qualcosa di trionfale su quel piedistallo marmoreo che li sostiene. Sembra un monumento per formiche, ecco.
C’è un’opera o un artista che non sei mai riuscito a raggiungere?
Tanti, è inevitabile. Detto questo, le waiting list sono l’ultimo dei miei problemi. Le trovo così anacronistiche e, quando le sento nominare, il mio interesse è già rivolto altrove.
Cristina Masturzo
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