Nuova sede per la galleria Zero… a Milano. Intervista a Paolo Zani
Da quale necessità è nata la voglia di allargarsi e aprire un nuovo spazio? Il nuovo spazio ha caratteristiche dimensionali e architettoniche molto differenti da quelle che avevamo in viale Premuda. L’obiettivo è rendere disponibili all’interpretazione degli artisti le potenzialità straordinarie che hanno lo spazio in quanto tale e il contesto in cui è inserito. […]
Da quale necessità è nata la voglia di allargarsi e aprire un nuovo spazio?
Il nuovo spazio ha caratteristiche dimensionali e architettoniche molto differenti da quelle che avevamo in viale Premuda. L’obiettivo è rendere disponibili all’interpretazione degli artisti le potenzialità straordinarie che hanno lo spazio in quanto tale e il contesto in cui è inserito. È il nostro modo di cercare di dare una risposta effettiva, pratica a quello che è un sentire generale nel mondo dell’arte. Vogliamo essere più incisivi nel fare mostre che abbiano un senso dal punto di vista qualitativo. Mi sembra di cogliere un po’ di stanchezza nei rituali che si esprimono intorno al mondo dell’arte.
A cosa ti riferisci?
Mi riferisco prevalentemente alle motivazioni che inducono un appassionato alla lettura e all’approfondimento del linguaggio artistico. Alla banalità insita nella relazione attuale tra arte, potere e mercato. Credo che non ci si debba troppo scandalizzare di questa interazione, ogni epoca disegna uno scenario simile, che il contemporaneo tende davvero a leggere. Gerarchicamente, prima l’arte e l’opera e poi il resto.
L’ambizione del nuovo corso è continuare a sviluppare un programma espositivo di qualità.
In quale contesto (architettonico e anche sociale) s’inserisce la nuova galleria?
Lo spazio è situato nella periferia sud di Milano, in una zona con caratteristiche post-industriali valorizzate da una dimensione popolare. Un non-luogo in attesa di identità, proprio per questo molto affascinante agli occhi della nostra sensibilità.
L’impossibilità di predeterminare un percorso formale indipendente da quella forma paradossale di dinamismo che si respira in questo posto è uno dei fattori più interessanti da tenere in considerazione per l’utilizzo del nuovo spazio.
Conosciamo il punto di partenza e meno quello d’arrivo, la memoria del processo messo in atto è al momento meno importante delle potenzialità del presente vitale.
Perché vi siete trasferiti e come avete scelto lo spazio?
Mi ripeto: era necessario trovare un contesto stimolante che ci corrispondesse in termini di sensibilità. Non è stata una scelta frettolosa, in affanno, tutt’altro. In passato le scelte sono state relativamente condizionate dalla necessità di sentirsi forzati a rispettare tempi e modi dettati anche dal sistema. Questa volta il feeling con il luogo si è sviluppato in tempi più lunghi. Ho potuto verificare le affinità in modo meno nevrotico. Abbiamo voluto venire qui perché il luogo possiede addirittura una dimensione metafisica. Lo scenario urbano e la vitalità del posto sono, a mio giudizio, paradigmatici dal punto di vista antropologico. Ed è quello che mi interessa in particolare. Dopo molto tempo abbiamo trovato uno spazio che dà emozioni a me e agli artisti che hanno già avuto modo di vederlo.
Quali le differenze della nuova sede rispetto a quella in viale Premuda?
Le differenze sono legate alla dimensione del luogo, al posizionamento. Quello di viale Premuda era uno spazio più tradizionale e centrale, più vicino all’idea canonica di “white cube”. Qui torniamo a una fase dove la dimensione evocativa e narrativa dello spazio hanno una certa importanza.
Lo spazio ha una certa agilità dal punto di vista logistico (è ben strutturato per gli spostamenti, per il trasporto, per la facilità di modificarlo, per l’accessibilità). È semplice da raggiungere in quanto è connesso al centro con la MM3 e con la tangenziale. Ci piace l’idea di poter essere luogo di incontro per chi viene da fuori e chi arriva dal centro.
La nuova sede coincide anche con un’apertura verso nuovi artisti?
La curiosità verso il lavoro delle nuove generazioni necessariamente continua ‒ consolidando tuttavia i rapporti già esistenti con gli artisti della galleria e dando loro la possibilità di interagire con uno spazio che possa trasmettere energia, che possa stimolare la loro ricerca.
È un fatto, direi un’urgenza, che anche gli stessi artisti debbano prendersi la responsabilità di riconsiderare il loro modo di partecipare al dibattito, di essere parte del sistema. È il momento di immaginare perfino maggiore ambizione e più consapevolezza del proprio ruolo, meno interesse per mere strategie di affermazione.
Spiegati meglio.
Michel de Certeau, ne L’invenzione del quotidiano, afferma che le strategie puntano sulla resistenza che il radicarsi in un luogo contrappone all’usura del tempo; le tattiche invece puntano su un abile utilizzo del tempo, sulle occasioni che esso presenta e anche sui margini di gioco che introduce nelle fondamenta del potere.
Il tema della testimonianza mi pare un fattore da tenere in considerazione nella definizione del proprio orizzonte esistenziale di artista ‒ partecipando però al dibattito, accettando di essere parte di un sistema in cui certamente esistono straordinarie potenzialità per lo sviluppo della nostra specie.
Ecco, credo sia importante ricordare le ragioni per cui si è cominciato e fare in modo che rimangano.
Un’anticipazione sulla programmazione.
Dopo la mostra inaugurale Dead Time di Cally Spooner, tra le prossime possiamo nominare una personale con un giovane artista, Diego Marcon [presente nel nostro Best Of 2018 proprio nella categoria Miglior giovane artista, N.d.R.], un progetto speciale durante miart 2019 con Vincenzo Agnetti e una sequenza di mostre degli artisti della galleria, tra cui Adam Gordon, Francesco Gennari, Neïl Beloufa…
‒ Umberta Genta
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