Biennale di Venezia. Intervista alla curatrice del Padiglione Ghana
È uno dei padiglioni nazionali più acclamati fra quelli presenti all’Arsenale nell’ambito della 58. Biennale di Venezia diretta da Ralph Rugoff. Abbiamo fatto qualche domanda alla curatrice Nana Oforiatta Ayim.
Felicia Abban, John Akomfrah, El Anatsui, Ibrahim Mahama, Selasi Awusi Sosu, Lynette Yiadom-Boakye. È questa la rosa di artisti scelti dal Ghana per il proprio debutto come padiglione nazionale alla 58. Biennale di Venezia. Un debutto che non ha deluso le aspettative, anzi, le ha superate, complici gli impeccabili allestimenti ideati da Sir David Adjaye e un corpus di opere che testimonia la vivacità – e la maturità – creativa del Paese africano. Un debutto che parla la lingua della consapevolezza e di un approccio critico alle dinamiche dell’oggi, ben ravvisabili nel taglio curatoriale di Nana Oforiatta Ayim.
Ho letto con grande interesse il saggio che accompagna il catalogo del Padiglione ghanese, specialmente il passaggio in cui parli delle idee di nazionalità, di comunità e di confini. Qual è il senso di un padiglione nazionale per il Ghana?
Credo che il senso risieda nella pluralità di voci, forme, generi, collocazione. Anche se il Ghana come concetto è circoscritto ed esprime se stesso attraverso la forma, la sua risonanza no, e credo non ci sia un gruppo di artisti migliore di questo per dimostrarlo.
Recentemente ho avuto il piacere di intervistare Zanele Muholi sul significato della identità black. Che cosa pensi di questo concetto?
Quando vivevo in Europa trovavo l’idea di blackness limitante. Sono originaria del Ghana, che è qualcosa di specifico e tangibile, ma quando sono tornata a casa e non ho più dovuto difendermi dal peso dell’essere di pelle nera, sempre presente nel mondo occidentale, ho realizzato che c’era una comunione, non nella maniera in cui l’idea di blackness è stata integrata nella società occidentale come qualcosa di negativo o interiorizzata nei Paesi di provenienza, ma nella traiettoria di una comune origine frammentata dal commercio degli schiavi attraverso l’Atlantico e caratterizzata spesso e volentieri da resilienza, dallo spirito di sopravvivenza, dall’idea di connessione e trasformazione.
Come e perché hai selezionato gli artisti presenti nel Padiglione Ghana?
Sono tutti artisti con i quali ho un rapporto duraturo, fatta eccezione per Selasi, che conoscevo ma con il quale ho collaborato attivamente per la prima volta. Ho iniziato a lavorare con El nel 2002, con Ibrahim nel 2012, con Felicia collaboro da quattro anni e ho curato la sua prima mostra lo scorso anno ad Accra, con Lynette ho lavorato alla mostra del 2011 al New Museum e ci conoscevamo da tempo; John è stato un punto di riferimento per me per oltre un decennio e io e David abbiamo collaborato a molti progetti. Dunque si è creata una sorta di comunione, un incontro di visioni e proposte, filtrate dal terreno delle nostre origini condivise.
Sir David Adjaye ha ideato l’allestimento del padiglione. Ci racconti qualche dettaglio in più?
La terra è stata spedita dal Ghana e la forma e la struttura rispecchiano le classiche tecniche di costruzione dell’Africa occidentale.
È la prima volta che il Ghana presenta i suoi artisti alla Biennale di Venezia all’interno di un padiglione nazionale. Che cosa pensi di questa esperienza?
È stato un lavoro duro arrivare qui e attendo con impazienza il giorno in cui un padiglione africano a Venezia o in qualsiasi altro luogo dove esista relativismo espressivo non sarà più una novità, ma un dato di fatto.
Come valuti lo scenario artistico del Ghana?
È in crescita, è emozionante, lotta ed è euforico allo stesso tempo.
Okwui Enwezor ha contribuito al Padiglione come strategic advisor, dunque credo tu abbia avuto modo di lavorare con lui alla mostra. Durante la sua conversazione con Adjaye riportata in catalogo, evidenza nell’approccio di quest’ultimo all’architettura un senso di urgenza in risposta alle istanze contemporanee. Enwezor veicolò il medesimo senso di urgenza attraverso la sua Biennale del 2015 e io l’ho percepita anche nel Padiglione del Ghana. Sei d’accordo?
Credo ci sia urgenza in ogni momento, così come una serenità di accettazione, e spero che il padiglione riesca a trasmettere questa dualità, presente nei dialoghi fra le opere, la curatela e l’architettura.
‒ Arianna Testino
www.labiennale.org/it/arte/2019/partecipazioni-nazionali/ghana
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati