Artisti da copertina. Parola a Matteo Cremonesi
Intervista a Matteo Cremonesi, autore della copertina del nuovo numero di “Artribune Magazine”.
Classe 1986, studi al Liceo Artistico e all’Accademia di Brera di Milano, Matteo Cremonesi è appassionato di letteratura giapponese e di Michel Foucault. L’ossessione è una delle sue migliori qualità. Osserva per lunghi periodi l’oggettistica di sistema, del lavoro, della burocrazia. Sceglie oggetti standard, apparentemente irrilevanti, come le fotocopiatrici. In un primo momento li disegna, poi – come ci racconta – “inizia la danza visiva”, attraverso la fotografia, in cui non c’è mai un evento, e i video, lenti e quasi privi di azione, che esasperano il processo e spingono lo spettatore a interrogarsi sull’atto stesso del guardare.
Quando hai capito che volevi fare l’artista?
Da ragazzo avevo il desiderio di realizzare delle immagini. È ancora così.
Hai uno studio?
No, nel mio appartamento ho una scrivania sempre libera e una buona biblioteca.
Quante ore lavori al giorno?
Dipende dal periodo.
Preferisci lavorare prima o dopo il tramonto?
Sono un animale notturno.
Che musica ascolti, che cosa stai leggendo e quali sono le pellicole più amate?
Ultimamente ascolto molto Keiji Haino. Leggo spesso e volentieri sempre gli stessi autori. Di tanto in tanto ne incontro uno nuovo, e altrove un altro perde la capacità di “seguirmi”. Questo spostamento dura sempre a lungo. In questi giorni porto spesso con me Perturbamento di Thomas Bernhard. Con il cinema ho più o meno lo stesso rapporto. Riguardo molte volte gli stessi film e autori. Alice nelle città di Wim Wenders è il film che ho visto più volte.
Un progetto che non hai potuto concretizzare ma che ti piacerebbe fare.
Mi piacerebbe molto pubblicare altri libri fotografici.
Qual è il tuo bilancio fino a oggi?
Sto facendo un percorso, non ho risposte semplici.
Come ti vedi tra dieci anni?
Ultimamente mi capita di domandarmelo.
Curi la programmazione di Office Project Room e hai fondato, insieme a Giangiacomo Cirla, la piattaforma online di ricerca sulla fotografia e sul video PHROOM. Che cosa trai da queste esperienze prettamente curatoriali?
Quella che sto maturando con la direzione artistica di Office Project Room e in PHROOM è un’esperienza davvero interessante. La possibilità di approfondire il lavoro di autori che m’interessano, imparare a leggere i percorsi autoriali e le dinamiche di uno spazio espositivo a partire da un punto di vista differente da quello che ha un autore sono certamente opportunità che questo lavoro mi sta dando. Credo che quest’esperienza mi possa aiutare a portare avanti la mia ricerca con maggior intelligenza e consapevolezza.
Osservi, studi a lungo e fotografi ossessivamente oggetti quotidiani a cui generalmente non prestiamo molta attenzione, come una fotocopiatrice. È una sorta di processo di monumentalizzazione del quotidiano?
Non ho mai inteso il mio lavoro in questi termini. Credo di avere una postura più mite e periferica. Il mio lavoro si può raccontare come una placida registrazione di ciò che è costantemente presente, vicino, apparentemente irrilevante. C’è molto poco da vedere, non ci sono immagini “nuove” né ci sono eventi o narrazioni da riportare, solo un ascolto di ciò che vediamo costantemente.
Il tuo lavoro parte da “un’ossessione silenziosa dell’oggettistica di sistema, del lavoro, della burocrazia”. Puoi spiegare meglio?
Di un oggetto sono interessato soprattutto alla sua capacità di riferire un’identità generale e oggettuale delle estetiche della cultura contemporanea. L’indifferenza estetica, la tendenza all’anonimo e alla “mobilità” degli oggetti stessi, che possiamo ritrovare in diversi ambienti, mi interessano in quanto riguardano tanto un ambito esperienziale privato, intimo, quanto l’universalizzazione tecno-capitalista che, a seguito dei processi di globalizzazione, ha uniformato e disciplinato le esperienze estetiche, imponendo la necessità di un ragionamento sul problema della soggettività etica e politica nella cultura contemporanea.
Crei prevalentemente serie fotografiche con centinaia di scatti molto simili tra loro e realizzi video in cui avvengono minuscole variazioni, quasi impercettibili.
Sono interessato a una postura dello sguardo che tenti di provocare un esaurimento dell’esperienza stessa del guardare. Credo che la ripetuta, continua richiesta di attenzione su qualcosa di già esperito possa realizzare nell’osservatore una sorta di pausa dalla quale iniziare un ascolto altro del circostante. Una condizione simile, sebbene attraverso un registro sintattico differente, si crea anche nei video. L’esercizio di tenuta dello sguardo nel tempo richiesta dai lavori coinvolge il corpo dello spettatore, ponendolo di fronte alla necessità d’interrogarsi sull’atto stesso del guardare.
Che caratteristiche deve avere un oggetto affinché attragga la tua attenzione?
È difficile dirlo chiaramente, chiunque guardi i miei lavori può facilmente accorgersi di quanto tutti i soggetti e le immagini che produco si somiglino molto fra loro. A spingermi verso un soggetto è la sua capacità d’incarnare un carattere “burocratico”, di essere in qualche modo un soggetto/oggetto di genere. Tuttavia, i soggetti capaci di soddisfare queste caratteristiche sono molti, ma solo con pochi mi risulta possibile lavorare. È qualcosa che non riesco bene a spiegarmi. Succede che un soggetto che magari non avevo mai davvero notato, malgrado la vicinanza, improvvisamente diventi adatto e irrinunciabile, mentre qualcosa che si era atteso di incontrare d’improvviso ci accorgiamo che non c’interessa davvero. Credo sia così per molte cose.
Sei un appassionato di letteratura giapponese e di Michel Foucault. Quanto la lettura influenza il tuo pensiero?
L’influenza che alcuni autori hanno avuto e continuano ad avere sullo sviluppo teorico e formale del mio lavoro è importante. Con alcuni pensieri ci si fa l’idea di avere una familiarità.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Desideravo utilizzare quest’occasione per realizzare un’immagine che potesse rappresentare immediatamente la mia pratica. È stato strano lavorare su un solo scatto, dato che il mio lavoro prevede sempre che un’immagine sia preceduta e seguita da un’altra immagine che ne riprenda e sposti in parte l’espressione.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #49
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