Non artista ma attivista. Intervista con Zanele Muholi
Fra i protagonisti della mostra curata da Ralph Rugoff alla 58. Biennale Arte di Venezia, Zanele Muholi ripercorre la sua carriera e le origini del suo attivismo.
Fino a poco tempo fa ignota al pubblico italiano, dopo un breve passaggio nel 2013 alla Fondazione Fotografia di Modena, la sudafricana Zanele Muholi (Umlazi, 1972) ha recentemente avuto una personale alla Galleria del Cembalo di Roma e ora è in mostra alla Biennale di Venezia.
La tua fotografia mescola politica, stereotipi, questioni di genere e la recente storia del Sud Africa dal punto di vista LGBTI. Quando e perché hai deciso di lavorare su questi temi?
Il punto non è quando ho deciso di essere un’attivista, ma perché. È stata una necessità. Le circostanze in cui mi trovavo hanno determinato il mio attivismo. La gente non può cambiare il sistema se non si considera parte di esso. Per comprendere questo ragionamento, bisogna ricordare che stiamo ancora facendo i conti con le conseguenze dell’Apartheid, il cui unico obiettivo era privare i neri dei loro diritti. Uno dei più feroci strumenti utilizzati è stato il Bantu Education Act.
Di cosa si trattava?
Era un programma ideato per formare i neri come braccianti, operai o domestici. Il sistema si adoperava per distruggere l’intellettuale nero e l’intelligenza emotiva. L’architetto [così viene chiamato Hendrik Frensch Verwoerd, politico sudafricano che teorizzò e mise in pratica l’Apartheid, N.d.R.] del Bantu Education Art disse: “Non c’è posto per [l’africano] nella comunità europea al di sopra di un certo livello di lavoro. Non è utile per lui ricevere una formazione che abbia come scopo l’assorbimento nella comunità europea”.
Quali sono state le conseguenze?
La nostra storia e la nostra immagine sono state scritte e modellate da qualcuno che nemmeno ci conosce. Ricordo alcune delle prime immagini che vidi da teenager sudafricana, erano della protesta del 16 giugno 1976. Crescendo ho visto altre fotografie di protesta e conflitto – raramente i neri erano ritratti con immagini positive. Quando la nostra Costituzione è stata modificata nel 1996, includendo norme in base alle quali partner dello stesso sesso possono adottare bambini e avere diritti sull’eredità, è stato chiaro che l’Apartheid ci aveva costretti a essere parte di un sistema che non era adatto a noi.
Fu una ulteriore presa di consapevolezza?
Fu allora che intrapresi il mio attivismo in merito alla visibilità del corpo queer, un corpo marchiato come se fosse affetto da una malattia. Volevo lottare per la comunità che conoscevo. Eravamo di più che corpi marchiati. Siamo intellettuali, imprenditori, filantropi, artisti ‒ siamo gente comune. Ho usato la fotografia per sfidare l’approccio ai racconti LGBTI, spesso fraintesi da chi si trova al potere. Volevo sfidare gli storici e gli storici dell’arte, chi raccoglie documentazione su di noi dal XVIII secolo ma nega la nostra visibilità e, di conseguenza, la nostra rappresentazione. In definitiva, voglio dire che io, come sudafricana, ero qui e ho contribuito a scrivere/riscrivere la storia, herstory [gioco di parole intraducibile fra his-story e her-story, storia-di-lui e storia-di lei, N.d.R.], queerstory, transtory, attraverso una documentazione appropriata e testimonianze visive nei musei, nelle gallerie, così come nei media mainstream. L’ho fatto sapendo che questo lavoro va oltre la comunità LGBTI.
In che senso?
Riguarda la generazione alla quale è stata negata l’istruzione e le generazioni future, le quali sapranno che non siamo rimasti in disparte per sempre. I neri in Sud Africa non hanno neppure il lusso di avere delle immagini che attestino le loro conquiste, figuriamoci la possibilità di visitare musei e gallerie. Ho deciso di farlo perché ci sono persone che potrebbero non sapere o non capire perché noi ci amiamo l’un l’altro. Parlando per noi stessi riguardo a noi stessi, insegneremo agli altri che esiste ben altro al di là degli stereotipi che ci vogliono promiscui e malati di AIDS. Ho anche voluto educare quanti, nella comunità LGBTI, hanno interiorizzato stereotipi e traumi a causa di ciò che è stato detto o non detto loro durante la crescita o a causa dell’influenza esercitata dall’ambiente in cui hanno vissuto. Dunque lavoro, creo con consapevolezza e responsabilità, per onorarci.
Il black power nella comunità LGBTI è un importante tema con il quale misurarsi, specialmente in una realtà come quella attuale, sempre più dominata dall’intolleranza, dal razzismo e dalla violenza. Quale messaggio vuoi veicolare attraverso le tue fotografie?
Alla base dell’intolleranza, del razzismo e della violenza c’è l’ignoranza, alla quale si può porre un limite solo attraverso l’istruzione. Questo messaggio è per le generazioni future e per quanti avranno il desiderio di imparare. Non tutti sono liberi, le ramificazioni del colonialismo e dell’Apartheid si continuano a percepire ovunque e si manifestano sotto forma di disoccupazione, black out, inefficienza del sistema di istruzione eccetera. Se non lavoriamo per cambiare la schiavitù mentale che tiene ancora molti in ostaggio, continueremo a vedere questi tre mali [razzismo, povertà e guerra, secondo il pensiero di Martin Luther King, N.d.R.] prendere sempre più slancio. Questo lavoro va oltre me stessa, riguarda noi. Il mio è un invito a combattere in nome di coloro che non possono farlo, in patria e oltre i nostri confini.
Qual è il modo migliore per far fronte alla violenza, all’odio e al pregiudizio?
È l’istruzione. La violenza proviene da un luogo fatto di arroganza e privilegi. Il Sud Africa è composto di diverse culture ed etnie, ma questo non significa che ciascuno di noi conosca il modo di vivere dell’altro. Abbiamo una varietà di lingue parlate e per questo, se vogliamo essere uniti, dovremmo compiere lo sforzo di imparare tutte le lingue, senza farne prevalere una sulle altre. Il medesimo discorso si applica qui. Dobbiamo educare le persone affinché possano scegliere fra i loro preconcetti e i fatti. Vale lo stesso per quanto riguarda il modo in cui io mi definisco. Se solo mi fosse chiesto perché sono così, quale pronome preferisco, quale genere, eccetera, ci sarebbe molta meno ignoranza. Il tutto si riduce a una questione di incomprensioni e di rispetto reciproco.
Quali feedback ricevi dal pubblico nel tuo Paese e all’estero?
Di solito ricevo feedback positivi dal pubblico estero perché è interessato al mio lavoro e anche al Sud Africa. Ricevo riscontri molto positivi anche nel mio Paese, specialmente dalle persone coinvolte nel mio lavoro e dalla comunità che abbiamo creato, per capire il senso delle nostre vite. Poiché queste persone mi danno il loro tempo e il loro stesso essere, tendo a dare più valore alle relazioni.
Hai dichiarato: “Vivi come una persona nera per 365 giorni l’anno”. Qual è il significato di questa affermazione e come la espliciti attraverso il tuo lavoro?
Mi riferisco semplicemente alla politica della blackness, laddove una persona nera non può essere soltanto nera a prescindere dalle circostanze, e così quando la gente proietta su di noi la sua ignoranza e il suo razzismo pensa che in qualche modo noi dovremmo dimenticare chi siamo nel profondo. Essenzialmente sto dicendo: conoscimi per ciò che sono e apprezzami anziché cercare di cambiarmi, perché è impossibile. Ho avuto uno spaventoso incidente ad Amsterdam: un uomo ha fatto cadere dalle scale un membro del mio collettivo, urlando quello che potrebbe essere considerato un incitamento all’odio. Poiché i nostri corpi neri lo rendevano così aggressivo, fu accusato di tentato omicidio. Tutto ciò mi ha fatto capire che la gente ha ancora questa sciocca idea di cosa/chi siano gli africani e che ritenga un proprio diritto essere la grande speranza bianca. Ho realizzato Somnyama Ngonyama per dire che, se qualcuno non riesce a interagire con abbastanza persone nere, qui ci sono 365 immagini affinché familiarizzi e si senta a proprio agio con la blackness. Non è una caricatura, ma una persona, un essere umano.
Come artista e cofondatrice del Forum for the Empowerment of Women, qual è la tua definizione di attivismo al giorno d’oggi?
Non mi identifico come artista, ma piuttosto come un’attivista visiva che esercita l’arte. Il mio attivismo non è mai cambiato, il messaggio è saldo. Sto aiutando parecchi neri ad accedere a spazi nei quali altrimenti non sarebbero mai in grado di andare, come musei e gallerie. Vogliamo vedere le nostre immagini in questi luoghi e far passare il messaggio che non esiste nulla per i queer neri o per le persone trans identifying. Non mi sono mai fermata, continuo a fare il mio lavoro filantropico. È spiacevole essere intervistata in merito alla mia arte e non per il mio attivismo, che è la fibra del mio lavoro. Ad esempio la formazione di una Mobile School of Photography, il lavoro con le scuole in KwaZulu-Natal, così come l’avvio del programma Women’s Mobile Photography a Philadelphia. Collaboriamo con molte persone e lavoriamo con un collettivo di giovani sudafricani che produce incredibili lavori per inkanyiso.org, un poderoso archivio LGBTI.
‒ Arianna Testino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #49
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