Biennale di Venezia 2019. Seconda intervista al direttore Ralph Rugoff
L’avevamo intervistato quando ha presentato alla stampa il suo progetto. Ora che abbiamo visto la sua Biennale, siamo tornati da Ralph Rugoff per capire se la nostra lettura della mostra era anche la sua o se si trattasse di una sovra-interpretazione. Ecco le risposte.
Nel 2015 lei ha curato la Biennale di Lione, ora quella di Venezia. Che cosa pensa del format biennale, intesa come unica, grande mostra internazionale?
È una domanda complessa. Credo che da una parte sia un format positivo, poiché si tratta di una piattaforma che riunisce artisti provenienti da tutto il mondo e che consente al pubblico di entrare in contatto con loro. Dall’altra, credo che la maggior parte delle biennali sia troppo grande e si concentri più sulla spettacolarità che sul garantire al pubblico un’esperienza significativa. Io sono il tipo di persona che, dopo aver visto venti opere d’arte, inizia ad accusare un calo di attenzione. In passato, nel momento in cui arrivavo alla fine delle mostre all’Arsenale, avevo perso la voglia di vivere, perché si trattava di un percorso davvero estenuante.
Qual è stata la soluzione che ha adottato? Quest’anno il percorso, grazie anche alle pannellature in legno, è molto più “ordinato”.
Ho tentato di rompere, in qualche modo, l’architettura dell’Arsenale, così da creare aree più focalizzate, dove non si ha una visione d’insieme, lavorando con la texture dello spazio e giocando un po’ con le proporzioni a seconda del tipo di opere.
La Biennale di Christine Macel è stata un tentativo di riportare l’attenzione sugli artisti e quella di Okwui Enwezor aveva una componente politica molto forte. Mi sembra che con la sua Biennale abbiamo un ottimo equilibrio fra il rispetto per gli artisti e una precisa visione curatoriale. È d’accordo?
La mia visione curatoriale coincide con il rispetto per gli artisti. Ho cercato di dare agli artisti la possibilità di mostrare diversi aspetti della loro pratica. Il format di questa Biennale si basa su due proposte espositive, una alle Corderie dell’Arsenale e l’altra al Padiglione Centrale dei Giardini, che includono gli stessi artisti, i quali presentano opere differenti. Zanele Muholi, per esempio, straordinaria fotografa sudafricana, all’Arsenale presenta una serie di giganteschi autoritratti, nei quali guarda negli occhi lo spettatore, a volte sfidandolo e altre interrogandolo, mentre nel Padiglione Centrale presenta scatti più piccoli e intimi, nei quali il suo sguardo non incontra mai quello dello spettatore. Tutto questo genera un diverso approccio alle opere e anche, in alcuni casi, un riconoscimento non immediato dell’artista visto nell’altra sede. Ne è un esempio Christian Marclay, che nel Padiglione Centrale presenta delle incisioni su legno e alle Corderie un film digitale molto complesso.
La sua Biennale è politica e poetica, citando la Documenta del 1997 di Catherine David. Credo che gli artisti possano contribuire a cambiare il mondo quando agiscono da artisti e non da antropologi, da politici o da sociologi. Penso ad esempio ai lavori di Arthur Jafa e Kahlil Joseph, presenti in mostra, che hanno una estetica ma anche un componente politica molto netta. Ha volutamente scelto di creare questo equilibrio tra politica e poetica, etica ed estetica?
Io sono interessato agli artisti che praticano la multidimensionalità, che indagano emozioni, idee e sentimenti contraddittori, e il cui lavoro veicola in qualche maniera la complessità della società umana. Mi piacciono gli artisti che esplorano molteplici storie, anziché una sola. La cosiddetta arte politica non può farlo perché tenta di promuovere un solo messaggio, senza lasciare spazio a domande e interrogativi, cosa che invece l’arte dovrebbe garantire. Io non ritengo che il compito dell’artista sia cambiare il mondo, credo sia il nostro compito, il compito degli spettatori. Gli artisti possono aiutarci a porci domande e a considerare altri punti di vista. Gli artisti possono aprire la strada verso nuove prospettive, ma sta a noi cambiare il mondo. È ridicolo chiedere agli artisti di farlo.
La sua Biennale bilancia pittura, video, installazioni, fotografia. È stata una scelta voluta?
Mi interessa qualsiasi tipo di arte e credo sia terribile includere troppi video in una Biennale, perché non si ha il tempo di guardarli. L’aspetto positivo dei dipinti, della scultura e delle fotografie è che ciascuno può scegliere quanto tempo dedicare loro. Credo che molte Biennali non dedichino troppo spazio alla pittura e alla fotografia e quindi mi sono concentrato su questi due linguaggi in particolare.
Tornando alle due proposte espositive che ogni artista ha ai Giardini e all’Arsenale, si tratta di una possibilità offerta, oltre che agli artisti stessi, anche al pubblico?
È una grande opportunità per il pubblico rivedere i medesimi artisti e concentrarsi sulla loro pratica, mettendo a confronto le opere viste nei due spazi. Desideravo evidenziare il fatto che la pratica degli artisti può abbracciare diversi aspetti e che in essa esista l’dea di differenza.
In passato abbiamo parlato della sua Biennale come la Biennale delle alternative.
È vero. Quando curi una mostra come questa, con un numero così alto di artisti, realizzi che ognuno è una alternativa, non esistono cose definitive. Si tratta sempre di possibilità. In questo caso si vedono le proposte A e B, ma ci sarebbero potute essere la C, la D ecc.
Ha usato spesso l’aggettivo “playful” per definire la sua Biennale. Ne è ancora convinto?
Cosa sarebbe la vita senza gioco? Sarebbe terribilmente noiosa.
‒ Marco Enrico Giacomelli e Arianna Testino
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