Accademia Tedesca a Roma. Intervista al direttore uscente Joachim Blüher
Intervista a tutto campo a Joachim Blüher, in procinto di lasciare la direzione dell’Accademia Tedesca a Roma.
A capo dell’Accademia Tedesca a Villa Massimo da diciassette anni, il direttore uscente Joachim Blüher fa il punto della sua attività. Senza risparmiare qualche stoccata ai musei pubblici romani e ai politici.
Lei è stato direttore dell’Accademia Tedesca per diciassette anni: qual è il bilancio di questo lungo periodo?
Il bilancio è composto dalle attività che abbiamo svolto.
A suo avviso quali sono le più significative?
Quattro. La prima è stata il ciclo di mostre Soltanto un Quadro al Massimo, che è stato un grandissimo successo ed è diventato una mostra cult. La seconda è stata Electric Camp Fire, che ci ha portato l’interesse della Roma giovane: un’operazione inusuale per un’istituzione pubblica grazie alla quale abbiamo conosciuto un pubblico molto motivato, che abbiamo voluto coltivare e consolidare nel tempo.
E le altre due?
Molto importante per me, ma anche per l’Accademia, è stata la borsa di studio per la praticità, che ha portato a Villa Massimo personaggi come Fabrizio Roscioli, del Forno Campo de’ Fiori. Sicuramente anche le ultime sei mostre sulla fotografia tedesca sono state rilevanti. Importanti anche le grandi serate di presentazione dell’Accademia a Berlino, occasioni indispensabili per far conoscere al mondo politico e culturale tedesco l’attività della nostra istituzione: veniva tantissima gente e vi presenziavano il Presidente della Repubblica, la cancelliera Angela Merkel e altre personalità. Se oggi nazioni come la Francia e la Svezia stanno pensando di chiudere le loro accademie a Roma, in Germania tutti sanno quanto sia importante Villa Massimo per la politica estera del Paese.
Questa è una consapevolezza che si deve a lei, perché prima del suo arrivo la situazione era diversa…
L’ho fatto fondamentalmente per i borsisti, per fare in modo che al loro ritorno in Germania venga preso in considerazione il loro soggiorno a Roma.
Cosa ha caratterizzato maggiormente la sua direzione?
Le feste, l’ospitalità, il cibo. Io sono un uomo dell’Ottocento!
Gli insuccessi più grandi?
Due, ma spettacolari. Non sono riuscito a fare una chiesa a Olevano Romano, ma l’impresa è stata bloccata dalla politica locale. Il secondo è stato l’auditorium a L’Aquila, fermato per le stesse ragioni.
Com’era Roma quando è arrivato diciassette anni fa e com’è oggi? Come sono andati i rapporti con la città?
Roma è la città che vediamo tutti i giorni, che non diventa mai normale perché credo che le manchi qualcosa. Le sue architetture straordinarie, che sono uniche al mondo, le rimpiangerò quando sarò nella mia casa a Bonn.
E sul versante del contemporaneo?
Non mi sono mai aspettato granché dalla Roma del contemporaneo. Non era interessante allora e non lo è nemmeno oggi. Il Macro è una vergogna e il Maxxi è una vergogna perché gli hanno tolto i soldi, anche se il personale è buono. I soldi vanno sempre nelle direzioni utili per accontentare qualcuno, ma non per fare mostre straordinarie e necessarie.
Ne è convinto?
In Italia non si fanno mostre interessanti nel settore pubblico, perché non c’è nemmeno una domanda in questo senso. A Berlino, Parigi o Londra ci sono mostre importanti non perché sono basate su grandi nomi ma perché si fondano su questioni di rilevanza culturale pubblica. In Italia nulla. Ricordo che, quando decisi di venire a Roma, Sigmar Polke mi disse: “Perché vuoi andare in Italia? È un Paese dove nessuno si interessa degli artisti viventi”.
Con quali istituzioni culturali della città ha avuto rapporti?
Non molte. Il Maxxi, l’Istituto nazionale della Grafica e Palazzo delle Esposizioni: ho avuto un ottimo rapporto con l’ex direttore Mario De Simoni, che con le sue mostre mi ha guidato attraverso l’arte in Italia e per questo gli sono molto grato. Con i politici italiani non ho avuto alcun rapporto, anzi li ho volontariamente evitati.
E i rapporti con i romani?
Sono stati sempre molto cordiali. Grazie a loro sono cresciuto, ho ammorbidito il mio carattere. Lascio questo Paese più gentile di quando sono arrivato.
Con le altre accademie straniere ha avuto relazioni?
Ottimi rapporti con gli americani, i francesi e i britannici. La collaborazione tra di noi è sempre stata molto buona.
Qual è il consiglio per chi verrà dopo di lei?
Essere se stessi, come ho fatto io.
‒ Ludovico Pratesi
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