Biennale di Venezia. La fotografia di Tamás WaIiczky al Padiglione Ungheria
Parola a Tamás Waliczky, protagonista del Padiglione Ungheria alla 58. Biennale di Venezia.
ll Padiglione ungherese della 58. Biennale di Venezia ospita Tamás Waliczky (Budapest, 1959). La sua è una ricerca sul tempo attraverso la fotografia, una riflessione sui mezzi in grado di registrare immagini, inventati e diffusi nell’arco degli ultimi due secoli. Apparecchi che hanno fortemente influenzato la visione umana. In realtà sono 23 macchine inventate dallo stesso Waliczky, al quale abbiamo chiesto di parlarci del suo lavoro e di spiegarci il senso della sua analisi sul tema della visione.
Quali temi e tecniche usi nel tuo lavoro?
Uno dei temi principali che affronto è quello di come effettuiamo le registrazioni visive del mondo. Per esempio, negli Anni Novanta, ho inventato diversi tipi di sistemi di prospettiva con i quali ho registrato dei video. Credo che il modo in cui rappresentiamo il mondo sia culturalmente determinante. Se guardo le fotocamere dei nostri cellulari e le foto che fanno, noto che la nostra cultura preferisce camere facili da usare e immagini facili da condividere. Ma possiamo semplicemente immaginare un altro tipo di cultura, che preferisce immagini uniche e personali e un processo fotografico più intimo.
Che cosa attira il tuo interesse?
Sono interessato a modi alternativi di vedere il mondo. Noi riconosciamo il nostro ambiente in modo complesso e la nostra mente costruisce un modello di realtà. Ogni strumento che crea immagini ci mostra solo un piccolo frammento di questa complessità.
Provo a mostrare differenti modi di creare immagini che registrano frammenti differenti e diversi aspetti della realtà. Sono un artista visivo, molto più interessato alle immagini uniche che alle produzioni di massa.
Perché hai scelto proprio questo lavoro, Fotocamere immaginarie, per rappresentare il tuo Paese alla Biennale? L’Ungheria è un Paese particolarmente importante dal punto di vista della riflessione fotografica, ha dato i natali anche al grande László Moholy-Nagy, padre della fotografia al Bauhaus.
Sì, l’Ungheria ha un profondo background fotografico. Robert Capa, Brassaï sono conosciuti in tutto il mondo. László Moholy-Nagy è per me molto importante perché non sono un fotografo, sono un artista new media e la sua esperienza con la tecnologia è molto vicina alla mia. Così come un altro artista ungherese, György Kepes. Non ho realizzato la serie Fotocamere immaginarie in occasione della Biennale. Ho iniziato a lavorare a questi strumenti ottici nel 2016 e alla fine del 2018 ne avevo già prodotti 23. Sono ancora interessato a questo argomento, perciò continuerò a produrre altre macchine nel futuro. Sono molto grato alla giuria del museo Ludwig di Budapest che ha scelto le mie opere per rappresentare l’Ungheria alla 58esima Biennale di Venezia. È un’esperienza meravigliosa.
Mi pare di potere leggere questo lavoro in una chiave concettuale, in cui il linguaggio occupa un ruolo predominante. Traccia, registrazione sono il principio portante della fotografia e qui ne sono anche il soggetto.
Noi umani, attualmente, produciamo ogni giorno miliardi di immagini. Volevo mostrare i dispositivi di produzione e di riproduzione delle immagini, come costruzioni o sistemi per creare e guardare le immagini. Se gli spettatori osservano attentamente le mie costruzioni, possono pensare a un’immagine che potrebbero produrre. Vorrei invitare il visitatore a creare immagini virtuali come le ho immaginate quando ho costruito questi dispositivi.
I modelli delle fotocamere, i cui meccanismi operano attraverso principi analogici, sono stati progettati con software digitali. Interessante il dialogo che si viene a creare fra i due mondi.
Lavoro con il computer dal 1982. Sono grato alla tecnologia 3D perché così posso visualizzare le mie idee. Ho progettato fotocamere analogiche perché voglio visualizzare il loro principio di lavoro, la loro costruzione. Nel caso degli strumenti digitali possiamo solo vedere fili e processori. È difficile seguire quello che fanno. Ma con i vecchi strumenti analogici posso mostrare gli ingranaggi, gli assi, le catene e gli specchi. L’osservatore, che ha abbastanza tempo e pazienza, può seguire la logica di questi elementi e immaginare cosa potrebbero fare, come funziona una macchina reale. È stata una sfida interessante bilanciare funzionalità ed estetica.
Spiegati meglio.
Volevo costruire telecamere che funzionassero, ma volevo anche creare interessanti composizioni. Nella progettazione di telecamere industriali la maggior parte degli elementi sarebbe nascosta. Nei miei lavori ho scelto un punto di vista che mostra l’interno della fotocamera e ne visualizza tutti gli elementi. Ho persino progettato questi elementi per apparire visivamente interessanti. Ho ingrandito alcuni di essi, ho dato loro una superficie accattivante per guidare l’osservatore da un elemento all’altro. Volevo anche onorare la storia del design delle fotocamere. Prendo le fotocamere come le radici della new media art. Questi sono i primi strumenti che simulano l’atto del vedere. Ho anche una relazione personale con loro. Mio padre era un fotografo amatoriale e mi ha regalato vecchie macchine quando avevo 7, 8 anni. Da allora adoro questi dispositivi.
Che immagini potrebbero creare i tuoi apparecchi? Immagini che consentono libertà all’artista e a chi guarda. Dacci qualche suggerimento in tal senso.
Spero che basandomi sulle mie opere e sui loro titoli, lo spettatore immaginerà da solo che tipo di immagini queste macchine potrebbero produrre.
‒ Angela Madesani
ha collaborato Lara Morello
www.labiennale.org/it/arte/2019/partecipazioni-nazionali/ungheria
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