Gli artisti e la ceramica. Intervista a Loredana Longo
Esplosioni e materia: oscilla tra questi due poli la ricerca artistica di Loredana Longo, da anni alle prese con la ceramica.
Loredana Longo (Catania,1967) è una delle artiste italiane dalla ricerca più caratterizzata e riconoscibile, da sempre incentrata sul contrasto tra costruzione e demolizione, tra forza e fragilità. Da qualche anno si è avvicinata alla ceramica e l’abbiamo incontrata nella sua casa-studio per capire come, ma soprattutto perché.
La ceramica è presente nel tuo lavoro da oltre dieci anni, anche se in forme diverse. Come e quando hai deciso di avvicinarti a questo materiale?
Un paio di anni fa ho iniziato a pensare a un progetto nuovo, qualcosa che fosse legato alla serie Explosion, ma con alcune variazioni importanti. Explosion ha segnato indubbiamente tutta la mia ricerca: è una serie nata a metà degli Anni Duemila, che poi si è evoluta nel tempo prendendo nuove forme, ma è indubbiamente la mia cifra, qualcosa in cui mi riconosco ancora oggi. Già allora la ceramica era qualcosa di molto presente, anche se nella sua dimensione più domestica e riconosciuta. Gli oggetti che facevo saltare in aria erano piatti di tavole borghesi, tazzine dei servizi buoni: erano simboli di quella silenziosa tensione che si annida all’interno delle nostre vite e nei nostri nuclei domestici. Distruggerli e ri-assemblarli era per me un modo per mettere in evidenza le fratture, le crepe che rimangono dopo ogni scontro.
Che cosa ti attrae dell’esplosione?
Direi che l’azione dell’esplosione, il conflitto e la memoria dell’intervento erano tre cose già presenti in quei lavori e ho cercato di portarle avanti negli ultimi anni in un processo nuovo: non mi interesso più all’oggetto ceramico finito, ma tento di intervenire già in fase di creazione. Certo, una creazione che è sempre figlia della mia azione.
Dell’esplosione non mi interessava (e non mi interessa neanche oggi) la deflagrazione in sé, non è il boato o la distruzione dell’oggetto a essere al centro. Quello su cui voglio focalizzarmi è ciò che l’esplosione trasforma, perché in ogni cambiamento di materia c’è la creazione di qualcosa che non esisteva prima. In ogni segno-crepa c’è il senso dell’azione e dell’esperienza, questo nell’arte come nella vita.
Che legame intercorre tra la frattura e la vita?
Il legame con la vita è fondamentale, è sempre stato un motore e una spinta. E questo lo dico da un punto di vista privilegiato: sono nata in una famiglia borghese, ho avuto un’infanzia felice, ho potuto fare il lavoro che sognavo di fare. Però in questa sequenza di eventi apparentemente lieti, sono sempre intervenuti degli episodi traumatici: degli incidenti di percorso che hanno segnato anche il mio corpo, che ne conserva le tracce. In questi piccoli segni ‒ impercettibili come la crepa incollata di una tazzina ‒ è racchiuso il senso di quello che è accaduto, la prova che nulla è lineare, pacifico. Ecco: quello che mi interessa è la rottura della linea degli eventi, la frattura, l’incidente.
Un incidente che è però sempre provocato con cura e attenzione nel caso delle tue Explosion, o delle più recenti Creative execution.
Sì, negli anni ho imparato a controllare l’esplosivo, con la collaborazione e l’aiuto di esperti e di tecnici. Ogni volta studio la carica e i contatti elettrici per poter regolare ciò che accadrà. Certo, anche questo controllo lascia sempre uno spazio all’imprevedibile, al fuoco e alla consunzione. Sai già che lavori per giorni e mesi, studiando un’azione che si consumerà in un minuto. Anche in questo caso l’arte è come la vita: si lavora moltissimo per la felicità di un istante. In quell’istante c’è l’accettazione dell’incalcolabile, dell’imprevedibile. La forza di qualcosa che ci cambia, per sempre. E questo avviene nel bene e nel male, semplicemente si creano nuovi equilibri.
Quando parli delle esplosioni, metti in luce la tua collaborazione con i tecnici. Come affronti questa relazione nel tuo lavoro in ceramica? Quanto ti affidi a collaboratori e quanto lavori autonomamente?
Ci sono persone, come Lorenzo Zanovello o il personale di Officine Saffi di Milano, che nel corso di questi anni sono stati fondamentali per la riuscita dei miei progetti. E questo perché io non modello l’argilla, non la tocco. Il legame con la materia, il virtuosismo del controllo tecnico, non mi interessano. Non c’è in questo alcuna presa di posizione snob: semplicemente il controllo di una tecnica (qualunque essa sia) non mi parla, non è parte di ciò che inseguo. La perfezione mi è totalmente estranea, mentre sento vicinissima l’azione.
E dunque come agisci?
L’argilla mi affascina per questa sua capacità di intrappolare in un istante, e al tempo stesso per sempre, la forza che si esercita. Quando la terra è fresca, infatti, accoglie immediatamente il gesto, lo asseconda e lo rende eterno in una posa plastica. Per me, che da sempre sono interessata alle tracce dell’azione nelle mie installazioni, questo è stato l’aspetto più intrigante ed è anche la ragione per cui ‒ da ormai due anni – continuo a scegliere la terra per le mie ricerche e le mie azioni. Si lega a un’attenzione che ho sempre avuto per materiali morbidi, modellabili: come la lana e la seta di cui sono fatti i miei tappeti; il cemento impoverito (e quindi fragile e sgretolabile) dei miei pavimenti; i velluti su cui brucio i miei arazzi. Forse l’unico materiale che non ho mai usato è proprio il ferro, e credo che non sia un caso se pensi alla sua rigidità.
E a proposito di metalli e ceramica ti chiederei allora di tornare ai lavori presentati quasi due anni fa da Francesco Pantaleone Arte Contemporanea a Milano, come Piedediporco.
Il mattone, per una siciliana come me, è il simbolo della speculazione, della ricchezza. Di una ricchezza che si basa sulla cosa, che è la cosa nostra, la proprietà, il possesso.
Distruggere un mattone con un oggetto contundente, che aveva anche questo nome un po’ volgare, era proprio un modo per esercitare una violenza contro la violenza. Di creare distruggendo un simbolo. La distruzione degli oggetti-simbolo di una casa borghese si è estesa fino al suo grado zero: il mattone. Credo che in questa attenzione, come dicevo, ci sia molto del contesto sociale da cui provengo: la Sicilia nella grande scala, ma anche la mia storia famigliare. I miei hanno avuto per anni un’attività legata all’arredamento. E io da quel mondo provengo. I miei lavori, anche quelli più problematici e violenti, ritornano sempre alla casa: i tappeti, gli arazzi, ma anche le mie ceramiche esplose. La serie Creative Execution riparte da una delle forme più banali per la casa: il vaso. Queste forme anonime vengono fatte detonare da fresche. La cottura ferma per sempre la distorsione e il colore interviene a impreziosirle. Per Piedediporco avevo usato lo smalto oro, per questa nuova serie il contrasto tra gli smalti aggiunge invece valore.
Ecco, hai toccato un punto che mi sembra centrale nella tua ricerca: la preziosità e anche una certa idea di femminilità.
Guardando distrattamente i miei lavori, si potrebbe pensare che sia stato un uomo a realizzarli, ma c’è sempre qualcosa che li tradisce, un segno, un colore, un elemento, come la mia firma, e denuncia subito la presenza di una donna dietro l’opera. E questo mi piace, lo trovo una parte integrante del mio lavoro. Per me femminilità vuol dire forza e non solo piacevolezza estetica. Non mi interessa che emerga la lenta costruzione del lavoro. Anzi. La forza del momento, della presentazione sono per me fondamentali. Mi accorgo anche che forse negli anni questa forza l’ho portata avanti come una maschera, a coprire tutta la fragilità che sta dietro al lavoro e alla persona. Esporre questa debolezza è un modo per celebrarla, per parlare di una vittoria su qualcosa di transitorio.
Vittoria, o Victory, una delle parole al centro dei tuoi lavori.
Sì, la serie Victory nasce proprio da una riflessione sulle vittorie transitorie, momentanee. Ma anche sulle sconfitte che stanno alla base delle vittorie. E questo vive nelle mie sculture, dove la scritta viene vandalizzata da un gesto, che come sempre distrugge e costruisce aggiungendo senso. Nella serie dei miei arazzi la parola Victory invece sovrasta delle scene di guerra, di distruzione, di contrasti. Sono immagini che trovo in rete e che poi brucio sul velluto, creando un negativo. Questa azione di bruciare la stoffa è al centro anche dei Carpets, in cui trasferisco su tappeti persiani le frasi pronunciate da politici o figure cardine dell’Occidente (come Obama o il Papa). Mi affascina l’idea di bloccare un pensiero su un oggetto-opera che sta a terra, che possiamo calpestare. Riporta tutto a una dimensione più quotidiana, una piccola sovversione rispetto al mondo dell’arte patinata a cui vorrebbero sottoporci.
È in questo principio che risiede la tua arte?
Ma forse tutta la mia arte è proprio questa rivoluzione permanente, con me stessa prima ancora che con gli altri. Il nucleo della ricerca è la rivolta verso qualcosa di concordato, ma usando proprio il linguaggio pop, quello che tocca quotidianamente una popolazione vasta. In questo senso non riesco e non voglio citare filosofi o letteratura altissima, ma anzi ripartire proprio dal quotidiano, dai personaggi “famosi” più che “celebri”. E con le mie opere tento di tornare al quotidiano, alla casa: tappeti, arazzi, sculture-vaso, mattoni, pavimenti in cemento. Forse sono pop e lo scopro a cinquant’anni. E adesso che ce lo siamo detto, dobbiamo fermarci perché il prosecco è fresco ed è ora di brindare.
‒ Irene Biolchini
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