La firma sul fronte. Intervista a Eugenia Vanni
Eugenia Vanni approfondisce il legame artistico con il padre Giuliano. A partire dalla mostra che vede le loro opere accostate negli ambienti di Spaziosiena.
“La firma sul fronte”, allestita a Siena, nei locali di Spaziosiena (fino al 6 luglio su appuntamento) è la mostra di Giuliano Vanni (Siena, 1946) con la presenza di alcune opere della figlia Eugenia (Siena, 1980).
Oltre a un incontro fra i due artisti, è anche uno spunto per parlare di pittura, della tecnica e di ciò che sta sopra dentro e sotto il quadro.
Già in passato avevi realizzato dei lavori utilizzando opere di tuo padre, Giuliano Vanni. Mi riferisco ad esempio alla collettiva Incontri, presso la Tenuta dello Scompiglio: lì uno dei suoi paesaggi era illuminato da luci stroboscopiche colorate. Come è nato invece questo progetto espositivo senese?
In quel caso avevo utilizzato un quadro giovanile di mio padre per realizzare un mio lavoro. Per questa mostra la questione è radicalmente diversa. Era da molto tempo che intendevo realizzare una personale di mio padre in cui il mio ruolo non fosse solo quello di curatore ma fosse una presenza attiva all’interno della mostra, che aprisse anche a una discussione su certi temi del fare pittura. Volevo che La firma sul fronte non fosse un vero e proprio dialogo tra i pezzi, o una doppia personale, ma un incontro, una discussione.
Spiegati meglio.
Nell’allestimento ho affiancato a ogni sua opera un mio pezzo: come una didascalia che mettesse in evidenza le sue opere e anche l’oggetto-quadro rispetto alla pittura intesa come superficie pittorica che accoglie un soggetto. Ho scelto di esporre solo una selezione di opere storiche di Giuliano Vanni, principalmente degli Anni Ottanta e con un criterio, da un lato, affettivo ‒ sono dipinti che risalgono infatti agli anni della mia nascita ‒, dall’altro in quanto opere che ritengo particolarmente significative del suo lavoro. La selezione è stata condivisa con lui, nel suo studio, e forse è stata la prima volta in cui abbiamo parlato di quadri veri e propri e non, come abbiamo sempre fatto, del dipingere.
Come ti sei approcciata al lavoro di tuo padre?
Ho sempre guardato al lavoro di mio padre da un punto di vista nascosto, concentrandomi non tanto sui soggetti che realizza, ma su ciò che sta sotto la tela e sulla cura che dedica alla fase precedente alla pittura. Osservandolo nello studio, mi sono sempre interessata di più a ciò che avveniva prima della pittura vera e propria, all’aspetto artigianale: come le mani di preparazione, la scelta della tela, il montaggio del telaio. Questo stare sotto la pittura, con il tempo, è diventato, nel mio lavoro, ciò che sta sopra, divenendo il vero soggetto. Adesso intercetto la poesia che sta nella pratica del fare.
Per realizzare le tue opere in mostra presso Spaziosiena, avevi già un’opera di tuo padre da cui partire, un punto di riferimento insomma, oppure il dialogo tra i vostri lavori è arrivato in un secondo momento?
Nessuno dei miei lavori in mostra è stato realizzato appositamente guardando alle opere di mio padre: volevamo che ci fossero incontri fortuiti tra le opere. Durante l’anno i quadri di entrambi vivono in luoghi molto vicini ‒ i nostri studi sono quasi di fronte ‒ e, a volte, gli oggetti della pittura come pennelli, stracci da lavoro, solventi, colori si confondono, perché nel tempo sono passati da uno studio a un altro; cosa che invece non è mai accaduta con le opere. Questa è stata la prima occasione in cui si sono incontrati. Dunque non aveva senso realizzare appositamente dei lavori. È stato un vero e proprio incontro e aveva senso farlo nella città in cui viviamo entrambi.
Che effetto ha generato in te?
Per me è stato come vedere queste opere per la prima volta: da un lato perché mio padre non ha avuto molte occasioni espositive ‒ è sempre stato un po’ ritirato e poco incline al sistema ‒, dall’altro perché è la prima volta in cui mi ci confronto direttamente.
La sua pittura a olio è visionaria, libera nel pensiero ma costretta in una tecnica a volte maniacale. Le sue opere sono oscure, fatte di vuoti e pieni, nitide nel colore a cui dedica grande attenzione; i soggetti sono tridimensionali e alieni, impossibili da decifrare. Guardando il suo lavoro, penso a quanto sia difficile inventare forme che non esistono. A lui non interessa che la preparazione si veda, ne ha solo bisogno. Invece io faccio sì che il sotto del quadro diventi il soggetto del quadro. Ad esempio ne La pittura intorno: lino su imprimitura nera sembra di vedere delle pennellate nere date sopra una tela grezza. In realtà ho dipinto a olio la trama del lino su un fondo nero, steso su una tela di cotone. L’imprimitura nera è utilizzata moltissimo da mio padre: è perciò importante il fatto che, in questa mostra senese, un’imprimitura che emerge da tutto il resto sia proprio nera.
Parliamo del titolo della mostra: La firma sul fronte fa immediatamente pensare alla paternità di un’opera. Come cambia, se cambia, tale concetto con il passare degli anni?
Si tratta in effetti di un titolo emblematico. Per me ‒ come per altri artisti, del resto ‒ è molto difficile firmare un quadro sul fronte perché la firma è una presenza estetica e pittorica che ha un peso enorme e, in ogni mia opera, qualsiasi minima presenza acquista un senso. Nel caso di mio padre, invece, la firma è intesa in quanto tale: è paternità, autorialità e in grado di sottolineare la differenza con il soggetto che, nei suoi dipinti, è senza dubbio preponderante.
Non posso qui trattare di come sia cambiato nei secoli l’approccio degli artisti nei confronti della firma, è una questione storica abbastanza lunga, ma posso dire che La firma sul fronte rappresenta, per me, questa doppia dimensione: tra chi lavora sull’oggetto-quadro e chi, invece, sul soggetto del quadro.
‒ Martina Marolda
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