Dialoghi di Estetica. Parola a Giulio Saverio Rossi
Intervista a Giulio Saverio Rossi, impegnato da anni in una ricerca che spazia dalla pittura alla installazione.
Formatosi nelle Accademie di Belle Arti di Venezia e Torino, Giulio Saverio Rossi (Massa, 1988) sta sviluppando il suo percorso di ricerca nell’ambito della pittura. Orientato da una indagine sull’inattuale nelle sue diverse declinazioni, il suo lavoro si sviluppa attraverso la produzione di dipinti e installazioni. Nel dialogo ci siamo soffermati sui presupposti della sua ricerca artistica, sui limiti e le possibilità di una pittura concettuale, sul ruolo della narrazione e della variabilità operativa.
Quali sono i principali presupposti alla base del tuo lavoro?
L’idea che l’arte non debba aderire al proprio tempo ma debba scardinarlo, spostarlo e traslarlo, divenendo così inattuale; l’immagine come elemento in perenne trasformazione che simula la stabilità; e la pittura come ‘pittura ritornante’, un linguaggio visivo altro rispetto al linguaggio visivo delle nuove tecnologie.
Proviamo a chiarire quest’ultimo tema.
La pittura, o almeno il concetto che ne ho, si può racchiudere storicamente all’interno di una parentesi che si apre con i graffiti rupestri e si chiude con il lavoro Cremation Project (1970) di John Baldessari, in cui l’artista fa cremare i propri quadri raccogliendone le ceneri in un barattolo. Una necrologia che si estende dalla morte simbolica dell’animale alla morte del medium stesso. Si è fatta e si può fare pittura dopo questo evento? Assolutamente sì, ma si tratta di una pittura ritornante che sussume la sua possibile fine come elemento centrale della propria narrazione.
Come procedi al fine di raggiungere questo obiettivo?
Cercando di sviluppare i miei lavori come se fossero delle verifiche del concetto di pittura. In questo approccio rientra una rilettura dei topoi della pittura, del suo immaginario, dei suoi materiali, delle sue metodologie e delle sue concezioni dei rapporti fra uomo e mondo che passano per il visibile.
Soffermiamoci sulla fase progettuale del tuo lavoro.
Parto sempre da un progetto, da una ricerca. Poi capisco se e come posso ricondurre una specifica narrazione all’interno della pittura. Cerco una chiave, una regola, a cui attenermi per ogni singolo progetto o serie di lavori. Come in un gioco, la regola ha valore solo all’interno di quel mondo e solo per chi sceglie di giocare. Il mio gioco consiste nel costruire delle tautologie come lavorare sulla pittura attraverso la pittura.
Che cosa vuol dire “lavorare sulla pittura attraverso la pittura”?
Penso a Ogni cosa rappresa (CAR DRDE, 2018), una mostra che ruotava attorno al gesso di Bologna – pigmento necessario per la preparazione delle tele e che soggiace allo strato pittorico senza apparire –, presentandolo ora come immagine, ora come materia e ora come immaginario: l’opera oscilla in questa mediazione.
Nella maggior parte dei casi, nei tuoi dipinti le informazioni o i riferimenti non sono decifrabili poiché nascosti dal colore e dalle sue stratificazioni.
Per me è centrale l’idea di una pittura che si sviluppa come ‘ecologia dello sguardo’. Con questa definizione intendo lavorare sulla possibilità di ridurre al minimo l’impatto visivo che l’immagine esercita sullo sguardo del fruitore. Alcuni dei miei lavori sono basati sui due colori che stabiliscono l’inizio e la fine del nostro spettro visivo (rosso e violetto), altri sul grado minimo di percettibilità dell’immagine al di sotto del quale la superficie risulterebbe una campitura piatta. Per questo nel mio lavoro non c’è nulla di palese, piuttosto c’è una logica del nascondimento che porta a una perdita di informazioni sia sul piano visivo sia su quello narrativo. Così la pittura, che in termini storici è restituzione dell’evoluzione dello sguardo, diventa il risultato di un ritorno di immagini che – essendo frutti di questa pratica ecologica – richiedono un tempo di osservazione dilatato.
Se non vuoi compromettere il piano formale e miri a conservare il più possibile l’elemento progettuale, lavorando anche sul nascondimento, fino a che punto la tua pittura può essere considerata ‘concettuale’?
Credo che la pittura abbia un impianto concettuale quando non è riducibile meramente alla pratica quotidiana, ma attraverso di essa possa favorire la possibilità di mettersi in discussione. Quello che io identifico come elemento concettuale è esattamente una progettualità che origina in un concetto, e che rimane naturalmente nascosta all’interno della pittura. Questo per me vuol dire anche lavorare su due dimensioni – fisica e visiva – che sono imprescindibili nella mia ricerca sia dal punto di vista della narrazione sia da quello della stabilità dell’opera.
Consideriamo questi aspetti: iniziamo dalla stabilità.
Le opere mutano. Le mie scelte rispetto ai materiali tengono conto di questa condizione di instabilità connaturata all’arte. La sua rovina è sempre presente o, come scriveva il filosofo Jacques Derrida, si tratta di una condizione dell’origine e non della fine. La pittura ha una sua superficie che sembra essere statica ma che a ben vedere non lo è per niente. Infatti, anche i dipinti dei grandi maestri devono essere restaurati, cambiano nel corso del tempo, riportano i segni delle loro trasformazioni. La loro instabilità non è solo una questione chimica, si radica nell’idea della pittura su tela come medium che è sempre dislocato, instabile: un’innovazione tecnica che ha consentito da un lato la circolazione dell’immagine, dall’altro la sua rovina.
Come è influenzato il tuo lavoro da questa precarietà?
C’è una immagine di partenza alla quale mi attengo, certo. Tuttavia, la metodologia che scelgo per sviluppare il lavoro sarà tale che andrà, diciamo, a ovattare quella stessa immagine originaria. Si tratterà perciò di lavorare sottraendo definizione proprio a quella prima ‘impronta visiva’ tenendo conto di quella mutevolezza che prima o poi si paleserà comunque nell’opera.
Torniamo alla questione narrativa.
Molto spesso si è intesa la narrazione, associata alla pittura, nei termini di una rappresentazione figurativa di un’azione. Se pensiamo ai tanti monocromi nella storia della pittura come quelli di Alan Charlton e di Sherry Levine cosa li fa differire? La soggettività della mano o l’intenzionalità narrativa? Per me la narrazione è un piano su cui l’opera è proiettata da una determinata intenzionalità, la quale attiva più significati per lo stesso significante.
Qual è il fattore che ti consente di decidere se un’opera è conclusa?
Il mio lavoro è guidato dalla scomposizione. D’accordo con questo presupposto, penso che il principale fattore che mi porti a concludere l’opera sia proprio la componente materiale, il limite ultimo delle possibilità di scomposizione.
In questo senso, Riscrivere un albero – una delle due opere che hai realizzato al PAV di Torino, in occasione dell’edizione 2017 di Teatrum Botanicum – mi sembra paradigmatica.
È vero. Per quest’opera ho usato matite di pura grafite per ricoprire la superficie della corteccia di un albero del parco del PAV. L’oggetto riscritto mantiene le sue sembianze pur diventando altro. Il termine del lavoro coincideva con la conclusione di una trasformazione. Ma questa si è verificata in due tempi: prima con la traccia dell’incontro di due materiali diversi: la corteccia e la grafite; in seguito con la scomparsa di quest’ultima per via della pioggia. Io mi sono fermato alla traccia concreta sulla corteccia… poi la fine del lavoro è avvenuta naturalmente.
In alcuni casi – penso per esempio a No Subject, il ciclo di dipinti esposti alla mostra al Localedue di Bologna – la relazione tra figurazione e svuotamento è stata decisiva.
Le immagini usate per i dipinti erano di ambienti virtuali elaborati per essere venduti nel mercato dei videogiochi o delle simulazioni. L’idea su cui ho lavorato era proprio quella dell’assenza di un soggetto per spogliare l’immagine da qualsiasi eventuale sovrastruttura narrativa. Allo stesso tempo, ero interessato a un rapporto quasi romantico con il paesaggio, alla scomparsa di ogni elemento visivo e al coinvolgimento del fruitore.
Come hai lavorato su quest’ultimo fronte?
Il mio obiettivo era portare il fruitore al centro di un’opera che presentasse delle vedute in soggettiva ma che fossero completamente disincarnate da un soggetto (reale o fittizio), offrendogli uno spazio visivo ottenuto dalla combinazione tra il paesaggio virtuale delle tele e quello reale della sala. Da una parte, ho lavorato sul potenziale immersivo (essendo in formato 16:9, le tele offrono una veduta panoramica), dall’altra sull’allestimento che citava palesemente le sale museali. Carolina Gestri, che curava la mostra, ha pensato di collocare la didascalia in forex sul muro esterno dello spazio espositivo per sottolineare la musealizzazione di uno spazio non profit. Seguendo la stessa idea, ho creato tre panchine che permettevano ai fruitori di scegliere la propria visuale, inserendosi così in una scena svuotata: uno spazio virtuale che necessitava del giusto tempo di osservazione per essere esplorato e valutato.
‒ Davide Dal Sasso
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