Gli abissi, dentro e fuori dall’acqua. Intervista a Julian Charrière
Parola a Julian Charrière, protagonista della mostra appena inaugurata al MAMbo di Bologna.
Un’esperienza immersiva, un vera e propria immersione che dai fondali delle Isole Marshall arriva alle Cenotes dello Yucatàn passando per la steppa del Kazakistan. La prima mostra personale in una istituzione italiana di Julian Charrière (Morges, 1987; vive a Berlino) ha inaugurato al MAMbo di Bologna, facendo sprofondare la Sala delle Ciminiere negli abissi, tra relitti di navi affondate e piramidi di noci di cocco che diventano monumenti.
All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere, questo il titolo dell’esposizione curata da Lorenzo Balbi, è un viaggio esplorativo, un racconto alternativo di alcune vicende storiche che hanno alterato la superficie terrestre e i suoi ambienti. Abbiamo incontrato l’artista per parlarne con lui.
In occasione della mostra viene tradotto e ristampato il libro As We Used to Float / Noi che galleggiavamo. In una delle prime pagine si legge che le immagini sono atomi ed è combinandosi che creano l’atmosfera, la cultura. Qual è il valore che dai alle immagini?
La maggior parte del mio lavoro riguarda lo scavo in immaginari iconografici, provo a capire come le immagini creano una struttura, come, a partire da un’associazione tra loro, danno vita a un fattore culturale. Molte delle ricerche alla base delle opere esposte a Bologna iniziano con la bomba atomica, intesa come fatto storico che ha cambiato il mondo. A partire da una suggestione iconografica degli Anni Sessanta, ho dato avvio a un’indagine nei luoghi dei test nucleari americani e per farlo mi sono recato sull’atollo Bikini, nel Pacifico del Sud, per circa un mese con una videocamera insieme a Nadim Samman, mio amico, scrittore e curatore.
Qual era lo scopo del viaggio?
Lo scopo del viaggio era vedere cosa era rimasto e che cosa potevamo imparare da questi luoghi. Una delle prime cose che abbiamo fatto è stato immergerci, fare letteralmente delle immersioni subacquee per esplorare i fondali dell’atollo che è un micro universo, un ambiente chiuso, circolare, in cui si ha la sensazione di essere “incapsulati”, separati da tutto. Le Isole Marshall sono luoghi appartati, remoti, scelti proprio in base alla loro distanza dal resto del mondo. Come esploratori abbiamo iniziato a scrivere un diario, un diario del viaggio e dell’esperienza. Un volta tornati, dopo circa un anno e mezzo, abbiamo iniziato un esperimento di riscrittura il cui risultato è un prodotto ibrido tra realtà e finzione, tra racconto e saggio.
Sempre nel libro mi incuriosisce molto la scelta di intitolare i capitoli con una singola parola, come Corpo, Cratere, immagini che si ritrovano nella mostra, un viaggio nel viaggio. A cosa si deve questa scelta?
Quando abbiamo iniziato a rileggere gli appunti è stato immediatamente chiaro che non avremmo potuto utilizzare una narrazione lineare, avremmo dovuto trovare un sistema per attraversare quei luoghi e quelle storie, così abbiamo provato a “dissezionare” ciò che avevamo percepito: sulla terra, sottacqua, un giorno, tutti i giorni. Nella ricostruzione la forza evocativa delle singole parole usate come titoli rendeva questo effetto di semplicità e complessità allo stesso tempo, che avevamo provato e che volevamo restituire. Credo che l’utilizzo di singole parole abbia un estremo potenziale immaginativo, ogni parola diventa un’immagine. Il tentativo era di dare al lettore un’esperienza sensibile, quasi tattile.
In uno dei progetti presentati in mostra, In the Real World It Doesn’t Happen That Perfectly realizzato con Julius von Bismark, si discutono i termini di realtà e rappresentazione, ma anche la nostra percezione della verità in relazione ai fatti e alle notizie (oltre a essere uno straordinario progetto di scultura effimera). Ce ne puoi parlare?
Con Julius von Bismark eravamo interessati a quei luoghi naturali che funzionano o vengono percepiti come monumenti, alcuni di questi, poi, per motivi diversi sono diventati l’obiettivo di pellegrinaggi culturali, come è accaduto nelle aree desertiche del Sud America. Luoghi che anche nell’immaginario collettivo sono gli ultimi baluardi della natura selvaggia, dove ci si può confrontare con spazi sconfinati. Quando ci arrivi, invece, ti ritrovi in un parco nazionale che ha tutte le caratteristiche di una meta turistica, con percorsi guidati che terminano solitamente di fronte a una “meraviglia naturale” come uno Stonebridge o i famigerati Hoodoo. Così abbiamo pensato di forzare questa idea di “monumento naturale” ricreandone alcuni, facendone delle copie, anche se non perfettamente fedeli agli originali, ambientandole in un paesaggio che fosse molto simile a quello originale perché in effetti è lo stesso deserto, ma si trova al di là del confine in Messico. Le abbiamo fatte esplodere, abbiamo filmato il tutto con i nostri smartphone e caricato su Internet, il resto l’hanno fatto i media.
Architetture immaginarie sono anche quelle di Savannah Shed e Somehow They Never Stop Doing What They Always Did. In questo caso, già nella scelta dei materiali c’è un riferimento alla geopolitica (le acque dei fiumi Nilo, Eufrate, Mekong) e altri materiali insoliti…
Penso che la materia, i materiali che utilizzo abbiano la capacità di farci viaggiare. Per esempio in Somehow They Never Stop Doing What They Always Did, anche se non credi realmente che sia acqua del Nilo, l’idea che la scultura comunica ti porta a immaginarla, ti porta in una dimensione altra, in un luogo preciso. Ritengo importante rimarcare questo collegamento con il territorio, vista la nostra continua “disconnessione”. È come se fossimo in ogni luogo in ogni momento, dal nostro smartphone vediamo la Terra, sappiamo dove ci troviamo grazie a un complesso sistema di satelliti e un enorme numero di informazioni, ma a volte perdiamo la meraviglia di attraversare i luoghi, di vederli, di sentirli, di toccarli. Quindi utilizzo oggetti e materiali che potresti trovare dietro casa insieme ad altri che arrivano dall’altra parte del mondo per creare inediti spazi di narrazione.
La geografia, o meglio la cartografia, è centrale anche in We Are All Astronauts. Pure in questo caso la scelta della materia e il soggetto sussumono contraddizioni e, sul sfondo, aleggia anche la figura di Buckminster Fuller.
Il globo è il substrato sul quale proiettiamo la nostra cultura, le nostre sensazioni, le nostre necessità e i nostri desideri. È molto interessante per me pensare all’idea del mappamondo, al suo essere estremamente duttile in base al Paese in cui ti trovi, in base al fatto che la sua rappresentazione cambia continuamente. Per questo ho realizzato una carta abrasiva con sabbie provenienti da tutti gli stati riconosciuti e ho “grattato” dalla superficie i confini, lasciando intatte le sfere. E il titolo We are all Astronauts si riferisce alla calzante idea che sulla Terra stiamo condividendo un viaggio, come passeggeri di un’astronave nello spazio.
‒ Claudio Musso
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