Pittura lingua viva. Parola a Maurizio Bongiovanni
Viva, morta o X? 41esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Maurizio Bongiovanni (Tettnang, 1979) vive tra Milano e Londra. Ha studiato presso l’Accademia per le Arti e le Scienze Digitali di Siena, il Riccardo Bauer e l’Università dell’Immagine di Ferri. Insegna disegno alla MBA Making Beauty Academy di Milano. Tra le mostre: Le conseguenze dell’errore, TRA Treviso Ricerca Arte, Ca’ dei Ricchi, 2019; Be Water Again, Project Space Korai, Nicosia, Cipro, 2018; Window Project, Federico Luger Gallery, Spazio 22, Milano, 2018; NOCCIOLINE, by Yellow, Milano, 2018; Painters ‒ Painters ‒ Painters, MARS, Milano, 2018; NATURE MORTE Contemporary Still Life, Guildhall Art Gallery, Londra, 2017; The Original Face, Century Club, Londra, 2017; Goldfinch, Uluntu Bermondsey, Londra, 2015; CRISCO DISCO and the Totem Paintings, Fondazione Fuori, Torino, 2014. Tra le borse di studio, workshop e residenze: Vermont Studio Center in America, 2012; Napoule Art Foundation, Costa Azzurra, 2012; Fondazione Spinola Banna per l’Arte, Torino, 2014; Internationale Sommerakademie fur Bildende Kunst, Salisburgo, 2014; Simposio di Pittura, Fondazione Lac o Le Mon, Lecce, 2018; Landina, 2019.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
In modo istintivo. Diretto. Ma prima della pittura c’è stato il disegno, mi piaceva, e mi piace ancora, vedere chi disegna. Quando ero bambino, mia madre disegnava per me e mia sorella delle principesse che noi dovevamo colorare. Per me era bellissimo: una forma di magia. Mio nonno invece disegnava un Pinocchio molto sinistro, sempre di profilo, che ci spaventava e attraeva allo stesso tempo. C’era un elemento benigno e maligno. Aveva un segno molto forte, quasi da film horror. Anche questo mi ha fatto capire fin da subito quanto il mezzo visivo fosse magico.
Questa magia di cui parli mi sembra di capire derivi da una certa ambiguità dell’immagine (affascinante e respingente al contempo), una caratteristica che si ritrova anche nelle tue opere, in cui ironia ed erotismo convivono con un senso di inquietudine.
Sì, è vero. Ho anche realizzato una serie che ricorda questi disegni di mio nonno su Pinocchio. Lui era analfabeta e teneva la penna in modo strano, lasciando un segno spesso e pesante, reinterpretava a modo suo la favola: il naso era sempre enorme, la menzogna era intesa come una cosa terribile!
Dicevamo, il tuo avvicinamento alla pittura…
Dopo l’infanzia, alle scuole medie c’è stata l’esperienza del colore. Allora è emerso il mio “daimon”, diciamo il talento, la mia voce interiore. La professoressa di educazione artistica ci fece copiare la pittura dei macchiaioli con le tempere. E io mi avvicinai molto all’originale. Tutti ne furono molto colpiti. Ma io non lo capivo: a me veniva spontaneo. Da lì la professoressa mi spinse a copiare altri artisti. Nello stimolarmi, erano gli altri a darmi sicurezza. Poi, più grande, ho vissuto un periodo di smarrimento. Non mi interessava più copiare, volevo cercare la mia grammatica, i miei colori e le mie forme. Ero una bussola impazzita. Vedevo i pittori della generazione precedente alla mia e non mi piacevano. Non li capivo. Poi, pian piano, ho iniziato a fare chiarezza e a decidere quali “ingredienti” usare nelle mie opere.
E a chi hai guardato?
Davvero a tutti. Anche a chi non si dovrebbe! Tra i miei preferiti non posso non citare: Filippo De Pisis, Marsden Hartley, Fernand Léger, Charles Demuth, Bas Meerman, Guglielmo Janni, Bisky Norbert, Corrado Cagli, Yannis Tsarouchis, John Craxton, Hernan Bas, Nils von Dardel, Marie Laurencin, George Grosz, Otto Dix, Sandro Chia, Enzo Cucchi, Jared French, Leon Golub, Glyn Philpot. Mi interessano poi autori contemporanei che toccano tematiche come quelle del queer.
A questo proposito, mi viene in mente un articolo letto un po’ di tempo fa in cui è analizzata tutta una nuova scena emergente americana di pittori queer ‒ una generazione che ha iniziato a lavorare molto dopo la prima drammatica diffusione dell’Aids ‒, che si è riappropriata della figurazione per trattare l’intimità e la quotidianità ed esprimere così la propria identità: una tipologia diversa di attivismo che passa attraverso la narrazione delle cose di tutti i giorni, di piccoli gesti intimi descritti e catturati in un quadro… Ritrovo per certi versi una attitudine analoga nel tuo lavoro, anche se tu parti dalla quotidianità ma è poi sempre presente un elemento di disturbo.
Effettivamente, si può essere attivisti anche dai piccoli gesti o brevi narrazioni che sembrano infatti rinviare a una più ampia narrazione. Tutto si mescola nella politica: l’attivismo, all’interno della vita nei suoi più piccoli gesti quotidiani, penso sia una forma potente. Non sono un attivista. Anche io ho avuto i miei “carnefici” per la mia diversità. Attraverso i miei dipinti, ho esorcizzato l’esperienza e ho fatto perno su di essa. E quando vedo che le persone colgono questo aspetto nei miei quadri ne sono felice. È terapeutico. Liberatorio.
Nel tempo sei passato dall’astrazione alla figurazione, ti sei concentrato in maniera quasi tassonomica sui volatili come soggetto principale, poi hai recuperato la figura umana che però quasi astrai attraverso le campiture e annullando i volti. Ti sei misurato anche con la fotografia e hai un rapporto speciale col digitale.
Sono entrato in punta di piedi nel mondo dell’arte tramite Luciano Inga Pin, un gallerista fuori dagli schemi. Insieme a lui ho iniziato con la fotografia. Mi feci degli autoritratti: la mia necessità era per prima cosa conoscere la mia faccia e il mio corpo. Ero però via via sempre più attratto dall’atto pittorico. Mi piaceva quel processo di cristallizzazione dell’immagine che la pittura consente. La fotografia si consuma troppo velocemente. La pittura ha invece una pluralità di livelli. Sono partito dalla scoperta dell’identità per arrivare a cercare di capire il linguaggio del mondo digitale, delle chat, la sessualità nella rete e di quando avviene il glitch. Ci vedevo qualcosa di poetico. Un codice a barre mi sembrava un linguaggio alieno. Mi faceva sognare. Ho realizzato la mia prima personale alla galleria Cannaviello, una mostra incentrata sui videogame, un mondo freddo, in cui avvenivano battaglie in cui io ero come uno spettatore esterno. A un certo punto mi sono interessato alla rappresentazione dei volatili. Tanti miei vecchi lavori sono legati a questo soggetto. L’ho esplorato in maniera viscerale. Ho vissuto anche in Cina perché mi interessava come la cultura cinese fosse legata in qualche modo a questo tema.
E poi?
Poi mi sono sentito letteralmente “ingabbiato” e ho deciso di cambiare. Ho iniziato a indagare la figura umana, ma mi interessava cancellarla, non darle troppa identità. Cercavo anche di simulare l’effetto del touch screen nelle mie opere. Mi piace l’ambiguità del digitale, può farti credere qualsiasi cosa, ma in realtà sono solo codici. Ho sempre sentito però il desiderio di mettere su tela tutto questo, di non limitarmi all’elaborazione digitale.
Diversamente avrei potuto ricorrere a dei processi di stampa. L’atto pittorico, per me, diventa una piattaforma di connessione al passato. Il digitale rappresenta l’“anima” di un mio dipinto. A partire da questo costruisco il “corpo”. Cerco una coerenza con l’epoca in cui vivo, prendo elementi della contemporaneità e li metto in scena.
E infatti hai realizzato opere che fanno riferimento a Facebook, agli influencer. Tu stesso usi i social per presentare i tuoi lavori. Parliamo quindi di pittura nell’epoca dei social network, dei meme, della moltiplicazione delle immagini. E a questo ‒ quando parli di “mettere in scena” ‒ si unisce la componente di teatralità dei tuoi soggetti. D’altra parte, attraverso i social si “teatralizza” la quotidianità, si “costruisce” una propria specifica immagine a discapito di spontaneità e istantaneità.
Proprio per questo a volte uso gli influencer come modelli per le mie opere. Si va a toccare la superficie delle cose. Penso al mare: la prima cosa che emerge è la schiuma. Ecco, a volte, si dà più importanza alla schiuma che alla profondità delle cose. Sono molto vicino all’elemento acqua. Ho letto tanto Bauman. I social si collegano all’idea di corpi liquidi, di relazioni liquide. La mia pittura vuole essere liquida, cerca di cogliere qualsiasi elemento. Mi piacciono i clash. Sono un po’ scettico quando degli autori sposano un solo stile. Come dicevo prima, a un certo punto mi sono stancato di dipingere solo volatili, che erano diventati un elemento molto riconoscibile delle mie opere. Voglio avere la libertà di parlare di determinate condizioni sessuali, di determinati stati d’animo, di un certo malessere, isteria, e falsa gioia, di un narcisismo tragicomico. Mi piace andare fuori registro. Anche la robotica, gli androidi mi affascinano. Mi piace immaginare potenziali personaggi e corpi del futuro. Anche il tema della violenza ha una parte fondamentale nel mio lavoro, che poi si scontra con la componente buffa, con quella melanconica o con quella ironica.
L’ironia, appunto, che ruolo ha?
L’ironia è molto importante per me. Si narra che il pittore greco Zeusi sia morto ridendo e l’idea di pensare alla mia morte ridendo… mi fa ridere. Poi penso a quel raro passaggio in cui dalla risata passi al pianto… e mi fa piangere.
La tua è una pittura lenta o veloce? Come nasce un tuo lavoro?
Anche leggendo un libro può nascere un dipinto, non necessariamente il digitale deve essere onnipresente. Cerco di bilanciare questi due mondi, vita reale/vita virtuale, ma non sempre ci riesco. Recentemente ho aperto un canale su YouTube in cui “trasformo” libri in dipinti. Sì, lo so, sembra assurdo, ma tutto il processo di realizzazione mi diverte moltissimo. Mi piace quando l’arte esce dai soliti e a volte noiosi contenitori. Quindi, solitamente, il mio lavoro nasce in modo spontaneo e poi dipende anche dal soggetto. Come accennavo prima, quasi tutti i miei dipinti nascono a partire da una immagine creata digitalmente. È come se realizzassi un disegno preparatorio, ma talmente preciso che sembra già il dipinto finale. La realizzazione è veloce. A volte capita che mi venga chiesto un dipinto che ancora non esiste perché magari ne ho pubblicato sui social lo studio preparatorio. Posso lavorare su un dipinto due settimane come quattro mesi. I grandi formati richiedono più tempo ovviamente. Ma non mi preoccupo in realtà del tempo. L’importante è il messaggio che riesco a trasmettere. Ora sto pubblicando sui social solo i dipinti finiti, non ne mostro la fase preparatoria, anche se questa ambiguità mi ha sempre affascinato.
Come scegli i soggetti che ritrai?
Mi lascio contaminare da tutto. Penso ai miei lavori come a degli ipertesti. L’ipertesto ti porta da una cosa all’altra. Nella mia pittura rappresento personaggi e situazioni molto differenti tra loro. La frammentarietà per me è fondamentale. La mia pittura si concentra sui frammenti. Anche i soggetti delle mie opere derivano da una serie di elementi frammentari che vanno a confluire in un nuovo soggetto: posso attingere dalla cultura greca come da immagini pornografiche, dai libri per l’infanzia o dai ritratti di amici.
Hai avuto anche un pornoattore come modello. Perché in certe opere senti la necessità di inserire elementi erotici, anche disturbanti, o con dettagli feticistici?
L’erotismo mi ha sempre attirato. È come un viaggio iniziatico. Mi colpisce l’aspetto intimo. È una cosa così ancestrale, animale. Sono coinvolti il corpo e la mente. Durante l’atto sessuale si attiva una sorta di trasformazione. Il corpo cambia. È una performance. Certi pornoattori vivono la propria sessualità in maniera completamente alterata. Questo mi affascina e spaventa.
E le mani che popolano i tuoi dipinti?
Nascono da quel disegno di mio nonno di cui parlavo prima. Non si capisce cosa stiano facendo, sono ambigue… toccano cose o semplicemente l’aria, come noi tocchiamo i nostri smartphone.
Perché fare pittura oggi?
Perché è un atto rivoluzionario. Ci vuole molto coraggio. È da folli! Però è necessaria per vedere e capire la vita attraverso il filtro pittorico. E poi mi piace l’idea della pittura che, come una prostituta truccatissima, ti chiama, ti seduce. Quando guardo i dipinti di Alessandro Pessoli, Pietro Roccasalva, Lorenza Boisi, Oscar Giaconia, Guglielmo Castelli, Thomas Braida, Paola Angelini, Rudy Cremonini, Luca Bertolo, Giulio Catelli e molti, molti altri, giusto per citare noi tenaci italiani, è facile darsi una risposta sul perché dipingere oggi!
Cosa pensi, quindi, della scena della pittura italiana contemporanea? Hai avuto la possibilità di vivere anche quella inglese, hai notato delle differenze sostanziali?
È il sistema a essere diverso. I giovani artisti inglesi sono già collezionati dai musei, ma anche in Germania o Svizzera gli artisti sono più “protetti”. Mi fa rabbia perché siamo in un Paese che ha una grande storia, un patrimonio immenso. È molto triste, ma ho sempre cercato di fregarmene. Oggi, anche attraverso i social, riesco ad arrivare a una platea ampia e internazionale. Certo, mi piacerebbe molto sentirmi più “protetto”. La pittura, per quanta forza possa avere, ha bisogno di strutture che ne amplifichino e sublimino la voce. Anche i critici sono assenti. La pittura, ancora oggi, riesce a dare molta sorpresa, per quanto si possa pensare che sia già stato dipinto tutto. C’è invece ancora bisogno di dire e di argomentare certi aspetti. Mi piace, per esempio, che dalle mie opere possa emergere l’elemento queer come forma di libertà espressiva dell’individuo.
‒ Damiano Gullì
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