Napoletano, classe 1973, Jacopo Crivelli Visconti è il curatore della 34esima edizione della Biennale di San Paolo, in Brasile, che quest’anno si configura come una mostra “diffusa”, in dialogo con musei e istituzioni locali. I motori si stanno scaldando, in attesa dell’opening a febbraio 2020.
La Biennale di San Paolo di quest’anno ha una struttura inedita, che coinvolge una serie di istituzioni cittadine. Ci racconti qualcosa in più?
La Biennale comincia nel grande edificio della Biennale (progetto di Oscar Niemeyer) a febbraio 2020, con una serie di mostre personali ed eventi performativi che si susseguono fino all’inaugurazione della mostra principale, a settembre. Le opere che compongono le personali, in particolare, sono presentate di nuovo, in altra configurazione, nella mostra principale, evidenziando come la lettura o interpretazione che siamo portati a fare di un lavoro dipende sempre dal contesto in cui lo vediamo (in questo caso, prima una mostra individuale, poi una collettiva). Questo stesso esercizio è amplificato dalla collaborazione con musei e istituzioni della città, che ricevono ognuna una mostra personale di un artista (brasiliano o straniero) che partecipa anche alla Biennale, e i cui lavori, di nuovo, potranno essere visti e interpretati in maniere diverse e complementari.
L’aspetto relazionale gioca un ruolo chiave. Quali prospettive apre all’interno della Biennale e nello scenario artistico globale, secondo te?
La poetica della relazione, di cui parla molto Édouard Glissant, uno dei nostri autori di riferimento, è uno dei punti di partenza della mostra. La necessità di stabilire relazioni con il diverso, l’altro, persino il nemico (e da questo punto di vista sono straordinari alcuni passaggi dell’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro) è urgente non solo o non tanto nello scenario artistico globale, ma ancora di più in quello sociale e politico.
Su quali artisti punta questa Biennale? Ci sono temi, tendenze o filoni generazionali preponderanti?
Come la maggior parte delle biennali, l’enfasi sarà sulla produzione contemporanea, ma vogliamo anche recuperare il ruolo che la Biennale di San Paolo ha giocato storicamente nella presentazione di artisti già affermati e opere storiche, che magari non si vedono facilmente in Brasile. Anche in questo senso la collaborazione con altre istituzioni è fondamentale, perché in un museo, per esempio, è possibile stabilire una relazione diversa con il lavoro di un artista rispetto a quella che si crea in una biennale o, in generale, in una mostra collettiva.
Che tipo di dialogo avete instaurato con le altre istituzioni coinvolte e con la città e i suoi abitanti?
Il tipo di relazione dipende dalle aspettative e dagli orizzonti di ogni istituzione, per cui in alcuni casi è la Biennale a proporre, organizzare e anche finanziare la mostra (che è comunque sempre curata da un curatore esterno al team della 34esima Biennale, perché ci interessa una pluralità di visioni), in altri discutiamo proposte che vengono dall’istituzione. Per quanto riguarda gli abitanti, in una città con quasi 20 milioni di abitanti l’obiettivo non può essere altro che quello di riuscire a parlare in maniera diretta con un pubblico estremamente diversificato. Anche per questo stiamo lavorando a una biennale non esclusivamente contemporanea, ma che accolga proposte che possono fornire chiavi di lettura e una prospettiva storica a un pubblico non necessariamente sintonizzato con le proposte più contemporanee.
Da italiano di stanza a San Paolo, come descriveresti il panorama culturale della città?
È una città estremamente dinamica, con una scena culturale molto viva, non solo nell’ambito dell’arte contemporanea, e da questo punto di vista è il contesto ideale per una biennale.
Mettiamo a confronto la Biennale di San Paolo e quella di Venezia. Quali punti di contatto e quali differenze individui sul piano generale e sul fronte delle attuali edizioni in particolare?
Dal punto di vista storico sono le due più antiche, ma sono anche ontologicamente diverse da molti punti di vista. Un aspetto poco visibile per il grande pubblico, ma che dal mio punto di vista è centrale, è che la Biennale di San Paolo è riuscita a mantenere un grado di autonomia piuttosto grande dal mercato, che si traduce in un’enorme autonomia dal punto di vista della curatela. Pensando alle edizioni attuali, mi sembra che la proposta di Ralph Rugoff di lavorare con gli stessi artisti all’Arsenale e al Padiglione Italia sia abbastanza in sintonia con il nostro progetto, che prevede una rete di mostre personali di artisti che espongono anche alla Biennale.
‒ Arianna Testino
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