L’allestimento come narrazione. Intervista all’architetto Marco Magni
Parola a Marco Magni, fondatore, insieme a Piero Guicciardini, dello studio toscano che da anni si occupa di allestimenti museali ed espositivi internazionali.
Fondato da Piero Guicciardini e Marco Magni nel 1990, lo studio toscano Guicciardini & Magni Architetti ha all’attivo una quarantina di musei e circa settanta allestimenti di mostre in tutta Europa. Con l’apertura della nuova sede, a due passi da Palazzo Pitti a Firenze, e della pubblicazione della monografia edita da Electa, ricostruiamo la sua storia, con un focus sui cantieri in progress.
Insieme a Natalini Architetti, avete progettato il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, che ha avuto una positiva accoglienza in città e dal 2015 continua ad attirare un pubblico eterogeneo. Cominciamo proprio dal successo di quest’opera: cosa ha rappresentato per la storia, trentennale, dello studio Guicciardini & Magni?
Il lavoro sul Museo dell’Opera del Duomo di Firenze è stato unico. Ha avuto una gestazione molto lunga, ma l’occasione di lavorare su un progetto di quel tipo resta straordinaria. Per quanti incarichi possano capitare nella vita professionale di un architetto, avere la possibilità di riorganizzare totalmente, progettando sia l’architettura sia l’allestimento, di un museo con quel potenziale di espressione e quella specificità, in un grande spazio del centro storico come l’ex-Teatro degli Intrepidi, è un fatto raro. Dopo quel museo, ne abbiamo progettati altri, anche più grandi; e tuttavia è difficile trovare una tale coerenza e una tale forza d’urto legata alle opere e al luogo come in quel caso. Insieme ad Adolfo Natalini, abbiamo potuto lavorare sia sull’architettura sia sull’allestimento: è un fatto che sta diventando sempre più raro, soprattutto all’estero. Ormai si sta configurando una crescente distinzione tra gli architetti che progettano i musei e gli architetti – o i designer – che si occupano di exhibition design. Nell’Opera del Duomo chiunque può leggere la continuità progettuale: l’architettura è stata messa a servizio delle opere per creare un sistema di percezione spaziale coerente, ricco, articolato.
Quando inizia il vostro percorso in questo specifico ambito della progettazione architettonica?
Ci occupiamo di musei da trent’anni. Abbiamo cominciato, prima ancora di esserci laureati, a svolgere le prime progettazioni nel territorio, per il Sistema Museale Senese. Da studenti abbiamo potuto progettare i primi piccolissimi musei etnografici, quindi il Museo del Bosco di Orgia e il Museo della Terracotta di Petroio. Più tardi è arrivato il Museo etnografico di Buonconvento. Un inizio nel territorio, con operazioni che avevano una connotazione locale, anche se il tentativo era quello di costruire un sistema avanzato, con ricadute in ambito turistico e sulla percezione dell’intera area senese. Gradualmente i lavori si sono spostati verso fasce diverse; a livello espositivo abbiamo incontrato i terreni dell’arte solo diversi anni dopo le attività in ambito etnografico. Tra la fine degli Anni Novanta e inizio degli Anni Duemila, siamo entrati nel campo delle mostre temporanee: questo ci ha permesso di mettere a punto altre energie e di sviluppare nuove visioni, collaterali rispetto all’allestimento museale.
Com’è cambiato il lavoro?
Lavorare con l’arte ci ha permesso di accedere a operazioni di maggior spessore e di raggiungere un pubblico più vasto. A questa seconda fase possiamo collegare anche le esperienze condotte nei musei nazionali fiorentini, tra cui la mostra Giovinezza di Michelangelo, a Palazzo Vecchio, e la mostra su Giotto alla Galleria dell’Accademia. A questa fase sono seguiti musei importanti in diversi ambiti italiani: il Museo del Tessuto di Prato, il Museo della Città di Carpi, il Museo Galileo a Firenze, il Museo di Palazzo Pretorio ancora a Prato, la Sezione Egizia dell’Archeologico di Napoli, il Bargello.
Dall’Italia siete poi approdati in Europa. Al momento avete cantieri in corso in Francia, in Turchia e in Norvegia. State lavorando al Museo Nazionale per l’arte, l’architettura e il design di Oslo, che al pari del Museo Munch è atteso entro la fine del 2020. Come procede?
A Oslo ci stiamo occupando del progetto degli allestimenti; mentre l’architettura è affidata agli architetti tedeschi Kleihues + Schuwerk, che hanno vinto il concorso del 2009. Ci siamo trovati a intervenire in una fase avanzata, vincendo a nostra volta nel 2016 la selezione internazionale relativa all’allestimento museografico. Tutta la parte dell’esposizione è a nostra cura, con una squadra di specialisti che include Massimo Iarussi per l’illuminotecnica, Rovai Weber Design per la grafica e Alain Dupuy per il multimediale. Abbiamo terminato la progettazione, dopo un confronto serrato con settanta tra direttori, curatori, conservatori e divulgatori. Si tratta di un grande lavoro collettivo.
L’operazione è molto interessante, poiché, quasi in controtendenza rispetto agli ultimi anni, a Oslo hanno scelto di riunire quattro musei nazionali in uno, destinandogli un nuovo edificio. Quale sarà il carattere del vostro intervento museografico?
Il museo è considerato come il più grande della Scandinavia. Una volta ultimato, sarà un grande complesso culturale: stiamo parlando di circa 10mila mq di spazio espositivo e di quasi cento sale. All’inizio del nostro lavoro, l’architettura si presentava come una serie di ambienti abbastanza omogenei, con un’impostazione ben solida. Con il nostro allestimento abbiamo voluto rispettare l’architettura, ma anche introdurre delle “situazioni più sottili”, di scala minore, che costituissero un arricchimento del paesaggio della visita. Date le dimensioni, era importante inserire delle variazioni ben congegnate, costruendo installazioni specifiche sugli oggetti e sulla loro percezione, ma anche un sistema innovativo a livello di design e interazione tra opere e pubblico. Noi ci poniamo sempre dalla parte del visitatore: lo facciamo per capire l’articolazione spaziale, studiare i percorsi e le pause, definire il ritmo. Il progetto di allestimento è come una grande narrazione, in cui il visitatore deve essere lasciato nella possibilità di cogliere gli elementi che più gli interessano e di muoversi in un sistema libero, seppure organizzato.
Qual è, invece, il contesto che avete trovato in Turchia? Nel Paese sono in corso dei processi promettenti, anche se, forse, il fronte politico-economico oggi appare meno stabile di come era appena qualche anno fa…
In Turchia ci siamo trovati bene. Lavorare a Istanbul è piacevole, la città è intrisa di cultura. Quando siamo arrivati, nel 2014, c’era un grande fervore. Si pianificava un intervento intensivo su un centinaio di musei in tutto il Paese. All’epoca l’intenzione era veramente quella di trasformare la produzione culturale in un ambito strategico dell’economia nazionale. Hanno preso il via molte iniziative, con forti entusiasmi e grandi volontà di fare. Nel frattempo, però, l’economia ha subìto un brusco rallentamento; oggi molti processi stanno avanzando con lentezza e altri, probabilmente, subiranno dei ridimensionamenti.
Uno dei progetti in cui siete coinvolti riguarda il Topkapi Palace, un’istituzione strategica e identitaria di Istanbul.
Il complesso di Topkapi è una realtà imponente. Noi lavoriamo all’interno di un ospedale militare ottomano dell’Ottocento: un edificio a duecento metri dal Palazzo, all’interno della prima cerchia muraria, con una vista straordinaria sul Bosforo. Qui saranno esposti soprattutto oggetti d’arte ottomana: al primo piano ci saranno oggetti in metallo; al secondo i tessuti sacri che il sultano portava nei luoghi simbolo, come La Mecca. Nel museo, inoltre, ci sarà un piano dedicato agli arredi ottomani, con mobili e apparati decorativi, e varie sezioni sulla ceramica, il vetro, gli argenti; si tratta, soprattutto, di un museo di arte applicata. In questo momento, dopo aver ultimato la fase del restauro sulla base del nostro progetto, sono appena ripartiti gli interventi di allestimento per la prima fase, che si dovrebbe concludere con l’apertura alla fine del 2020.
Come architetti siete abituati a lavorare, soprattutto in Italia, in contesti storici e in architetture con connotazione specifiche. Quale atteggiamento avete maturato verso la Storia?
Non vogliamo sovrapporre allestimenti occlusivi o creare “scatole nella scatola”, che annientino il contenitore e la storia di un edificio. Piuttosto, cerchiamo di usare l’architettura come un valore aggiunto. E questa credo sia la cosa che ci distingue: il fatto che i luoghi dentro cui collochiamo i nostri allestimenti interagiscono con gli allestimenti stessi, diventano parte di una sommatoria che comprende segni diversi appartenenti a più tipologie di intervento ‒dall’installazione artistica all’intervento grafico o multimediale ‒, ovvero tutte quelle componenti che fanno parte del mestiere dell’allestimento. Anche attraverso l’esperienza nei primi musei etnografici, abbiamo capito molto dei possibili modi di intervento sull’oggetto, il cui ruolo può essere interpretato dall’allestimento fino a renderlo esemplare, o invece corale, cercando di esprimere un senso collettivo o il “sentimento di appartenenza” a un tema, a un’epoca, a un contesto.
In Italia non sono mancate le “eccellenze storiche” nel campo dell’allestimento. Quali progettisti indichereste come vostri riferimenti?
Abbiamo studiato tutta la museografia dagli Anni Trenta fino agli Anni Sessanta, a partire dalla lezione di maestri come Franco Albini, che forse per primo ha introdotto il design e la contemporaneità nella progettazione del museo. E naturalmente Scarpa, personaggio straordinario, inimitabile ed eccellente interprete della storia e dello stile. Ma soprattutto i BBPR, che sebbene abbiano usato dei linguaggi più contaminati, meno puri, per noi hanno sempre avuto un ruolo di riferimento. Tra i grandi museografi italiani, va a loro il merito di aver intuito diverse idee in grande anticipo sui tempi. Tra queste il “nesso di relazione” tra il progetto e la storia, la consapevolezza che l’architetto è un interprete della storia – e non più un protagonista ‒ quando si colloca all’interno di processi creativi come il museo, nei quali si confronta con l’arte. A loro si deve anche la capacità di pensare agli allestimenti come la sommatoria di diverse professionalità, affiancate e non soggiogate al ruolo dell’architetto. Crediamo che i musei siano essenzialmente una creazione collettiva, e una delle più alte.
Nel mese di settembre 2019 uscirà, per Electa, il volume Mostre e musei di Guicciardini & Magni Architetti, a cura di Sergio Polano. Cosa può anticiparci?
È un lavoro editoriale che ripercorre la parte del nostro lavoro legata all’exhibition design e al museum design. Si riferisce ai progetti degli ultimi anni, ma rivela uno sguardo aperto verso il futuro. Accanto a una ventina di progetti già realizzati di mostre e musei, pubblicheremo anche ‒ in anteprima ‒ i nostri lavori in corso di realizzazione. Tra questi, i già citati interventi a Oslo e a Istanbul, il Museo dell’Opera del Duomo di Pisa [in corso di completamento, dovrebbe aprire entro la fine del 2019, N.d.R.], e il progetto per la Biblioteca Nazionale Francese Richelieu, a Parigi.
Di cosa si tratta?
Nel 2018 abbiamo vinto un concorso in due fasi. Adesso ci stiamo occupando della parte di musealizzazione compresa nel percorso della biblioteca parigina, con una collezione infinita fatta di testi rari, manoscritti dei grandi scrittori francesi, ma anche collezioni straordinarie di arte classica, numismatica, fino alla fotografia e all’arte contemporanea: il tutto in ambienti di grande fascino, tra saloni seicenteschi e l’architettura ottocentesca di Labrouste.
A proposito di concorsi, per un soffio avete sfiorato la vittoria nella gara per la riqualificazione dell’edificio della prima Zecca Poligrafica di Roma, posizionandovi secondi. Commenti?
Non ho commenti. È stato un progetto bellissimo, di respiro internazionale. Testimonia che in Italia non mancano le occasioni e le situazioni di eccellenza, a tutti i livelli: abbiamo dei curatori e direttori bravissimi, dei contenitori museali straordinari, collezioni sterminate e di altissimo livello. Tutto quello che serve per fare un museo, in Italia c’è, sempre. Forse, però, ciò che rende più difficile i processi è il peso dell’organizzazione dello Stato. Per fare grandi musei, servono grandi Stati, grandi capacità organizzative e di investimento. E talvolta l’abbondanza del nostro patrimonio in questi percorso finisce per diventare una zavorra, anziché tradursi in un incentivo.
‒ Valentina Silvestrini
Sergio Polano (a cura di) ‒ Mostre e musei di Guicciardini & Magni Architetti
Electa, Milano 2019
Pagg. 280, € 42
ISBN 9788891824639
www.electa.it/
www.guicciardinimagni.it
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati