L’emozione dell’essere. Intervista a Pier Paolo Calzolari
A poco più di un mese dall’inaugurazione della mostra napoletana al Museo Madre di Napoli, Pier Paolo Calzolari delinea i contorni della sua poetica.
Spirito e materia, libertà e curiosità, solitudine e tradimenti storici. E ancora, radici e influssi dal passato, e lo sguardo ai giovani artisti del futuro. In occasione della sua prima mostra interamente e “convulsamente” pittorica, allestita al Museo Madre di Napoli, Pier Paolo Calzolari (Bologna, 1943) si racconta.
A Napoli ci sono opere mai esposte. Come mai non sono mai state mostrate prima, qual è la loro storia? E perché non era mai stata realizzata una esposizione con questo focus?
Questa è una mostra di opere sconosciute, maniacalmente differenti e contemporanee a quelle più conosciute: sono convulsamente pittoriche. Le ho sempre attivate come una cosa parallela e privata. C’è una forma di frattura, di dicotomia maniacale nel fare arte minimale e pittura contemporaneamente. Dall’altra parte, è altrettanto maniacale il gusto del pubblico e dei critici, che si fissa su una direzione e non vede altro. Dunque c’è stata una reciproca “distrazione”: io verso i critici, e i critici verso la parte pittorica del mio lavoro.
Quindi questa è una mostra di libertà, in qualche modo?
È una mostra di curiosità. È nata grazie ad Achille Bonito Oliva, che seguiva da sempre la mia pittura, che l’ha proposta ad Andrea Viliani, che anche la seguiva. Io non avevo alcuna intenzione di fare una mostra di pittura, che vedevo come un mio percorso parallelo e personale. Però mi ha fatto molto piacere, perché parecchie di queste opere non le vedevo da quarantacinque anni, e rivederle mi ha generato una certa emozione.
Nel 2014 dichiarò a Luciano Marucci: “Io non ho mai contestato la pittura in sé: ne avversavo l’autoreferenzialità, in quanto consideravo la pittura come materia viva, quella espressa da un oggetto, un volume, una macchia”. Questa retrospettiva tutta dedicata – per la prima volta – alle sue opere pittoriche e disegnative ne è la dimostrazione tangibile, e deve essere stata anche per lei un’occasione per rielaborare il suo rapporto con pittura e disegno: che effetto le ha fatto rivedere tutta insieme questa parte della sua produzione, dagli Anni Sessanta a oggi?
C’è l’economia dell’essere e c’è l’emozione dell’essere. Sulla parte emozionale, mi ha colpito molto l’incredibile valenza e violenza pittorica e cromatica delle opere, che mi ha commosso. Dall’altro, c’è l’economia dell’essere, che mi fa capire che io ho bruciato in quarant’anni delle tappe progressive così usuranti che adesso resto un po’ attonito. Io sono tornato alla pittura da circa dieci anni, e se adesso prendo un pannello, dopo questa mia palette di quarant’anni che riscopro, resto paralizzato, stupito. Prima di affrontare i prossimi quadri devo prendere una pausa di riflessione.
Quindi è una mostra che le permetterà di entrare in contatto con nuovi stimoli per il futuro?
Non si sa mai cosa succederà.
Ed è questo il bello?
Esatto.
Nel 1972 ha esposto a Napoli, alla Modern Art Agency ‒ aperta allora da sette anni ‒ di un giovane Lucio Amelio, e nel 1977 vi è tornato, a Villa Pignatelli: due esperienze partenopee opposte, una in un white cube, spazio privato, l’altra in un museo, nella cornice neoclassica fortemente caratterizzata di un luogo storico, condizione credo a lei particolarmente congeniale. Che ricordi ha di queste due esperienze?
La prima era l’esperienza di assorbire l’irruenza di Lucio Amelio, persona molto irruente e viva. La seconda era ritrovare a Napoli opere prestate a Lucio da Sonnabend Castelli di New York, cosa che mi ha fatto curiosamente bene. Inoltre, fui colpito dal pubblico di Napoli che, anche se forse all’epoca era un po’ meno informato di oggi, mostrava grande generosità ed entusiasmo. Anche a Villa Pignatelli trovai un pubblico molto attento e rispettoso dell’arte. Entrambe sono state due esperienze molto positive.
E in generale, ci sono umori e suggestioni napoletane che, un po’ come la luce della sua Venezia, sono entrati nel cuore della sua arte?
Non ho avuto modo, purtroppo, di assorbire l’arte e la realtà napoletana, anche perché è molto complessa, ricca, borderline, e non mi sono fermato abbastanza per metabolizzarla. Per rimanerne affascinato e stupito, sempre.
L’opera come sistema invisibile, parafrasando una definizione di Fred Forest, è presente nel suo lavoro. Che però mantiene una fisicità quasi commossa, nella perdurante esigenza di contatto con una materia a sua volta ricondotta a percezioni fortemente alchemiche ed energetiche. Nella sua visione artistica e umana, cosa sono e come si relazionano spirito e materia?
La sua proposta di discussione è molto interessante. Intanto, per me non esiste nulla di invisibile, ogni cosa si testimonia lasciando una traccia. Per me una traccia olfattiva, una corrente d’aria sono strutture fisiologiche tangibili, perché sono realtà, non illusioni della realtà, non sono fantasmi, e i fantasmi stessi sono tangibilmente presenti. Io concepisco il lavoro in uno spazio pubblico, come un tempio, una basilica laica, un posto dove la gente appunto lascia odori, segni, tracce, sudori, pensieri, desideri, gangli consunti, richieste, preghiere. Queste sono tutte linee di forza percepibili, come le linee di forza tintorettiane. Questo non è un caos, è tutto ben organizzato e presente, e in questa cosmologia di elementi che si rincorrono c’è un momento dove ci si concentra sui propri desiderata, su se stessi, a livello religioso il musulmano si piega, l’ebreo si batte il petto, il cristiano si inginocchia. In quel momento ci si otticizza sul proprio desiderio e focalizza sulla propria necessità, è quello il momento in cui nascono la scultura e la pittura per me, in cui prendono sangue e corpo, in cui focalizzo l’opera, che però nasce in questo contesto magmatico. Ho risposto alla sua domanda?
Direi proprio di sì. Mi sembra di rinvenire una visione olistica in cui non c’è divisione tra materia e spirito, sono un’unica cosa.
Esatto.
La delicata alternanza di pieni e vuoti, l’essenzialità mai ridondante, lo scavare nell’energia e spiritualità immanente di oggetti e materiali, il valore poetico delle sue opere risvegliano assonanze orientali, assimilabili quasi ad haiku. Qual è il suo rapporto con estetiche o filosofie dell’Oriente, che oltretutto negli Anni Sessanta e Settanta, periodo della sua formazione, esercitavano un particolare fascino?
Sicuramente c’è una mia filo-orientalità. Complice di essa è stato il mio essere vissuto sin da bambino molto solo, perché non andavo a scuola ma sostenevo gli esami privatamente, non vivevo un collettivo. Venezia era una vera porta sull’Oriente. Marmi, piombi, incroci delle pietre, i segnali per terra per chi sa leggerli erano tracce molto forti che legano a Istanbul e al Medio Oriente. Inoltre c’era il fascino delle tessere a mosaico, in cui c’è una muta e silente preghiera, che ricorda l’arte giapponese. Infatti uno dei miei lavori pittorici in mostra è appunto un Haiku, e così si chiama. E anche le tecniche guardano al Seicento giapponese, con il pigmento steso puro sulla tela senza medium per non perdere la luce, in modo tale che la tela lo assorba ma non lo cangi.
Sono sempre colpita dalla valenza lirica dei suoi titoli. Quello di questa mostra è Painting as a butterfly. Qual è la sua ragion d’essere, e perché l’inglese?
Io ho sempre amato la poesia, che è la mia compagna giornaliera, come la lettura e la scrittura. Già negli Anni Settanta usavo scritte fatte col neon insieme al ghiaccio, in cui la luce era flebile, abbassata al massimo per sottolineare le parole che portavano. La pittura come una farfalla è una delle scritte dell’epoca, su delle stele simili a quelle marmoree ma fatte col sale, in diverse lingue. Ma questa frase in italiano o in francese non suonava bene, in inglese ha un altro peso, è aereo, ma ha un altro peso. Entro i miei limiti linguistici, ho sempre usato la lingua più adeguata all’idea che volevo esprimere, talora anche il latino.
Tra gli scopi della Fondazione Calzolari, oltre alla cura del suo archivio, vi è anche il sostegno a giovani artisti. In un’ottica, come lei ama dire, “orizzontale”, non gerarchica, cosa vorrebbe trasmettere a chi ora inizia il proprio percorso creativo?
Si tratta di un argomento molto delicato, oggi come oggi. Da parte mia, persona che ha scelto sempre l’isolamento, diventa ovvio l’invito ai giovani artisti a, se possibile, a inventare uno spazio d’attesa e di riflessione. Fermo restando che capisco che il mercato è importantissimo, tutti gli artisti sono e sono sempre stati mercenari, quindi non si può negare la presenza del mercato. Dico semplicemente che anche il mercato, il mercimonio vanno filtrati con la pazienza e con grande calma, e con un po’ di cinismo anche. Un cinismo storico, non parlo di cinismo di interesse. Penso che l’artista, se riesce a guadagnare tempo per sé e per la riflessione, sta pagando un grosso tributo alla sua arte. Il mio invito è questo.
E, sempre in un’ottica orizzontale in cui il futuro non nega la storia, che a sua volta non svaluta il domani, quali sono stati gli artisti – non solo visivi – del passato che hanno lasciato semi e tracce nel suo animo e fare artistico?
Ezra Pound, Tancredi, Turcato, Burri, Medardo Rosso… La lista potrebbe essere lunghissima. Sono presenze. Anche il Living Theatre è passato spesso per il mio studio, in particolare alcuni di loro, Rufus, Petra…
Prima ha citato anche Tintoretto e le sue linee di forza…
Evidentemente sì, anche lui.
Interesting Times sono quelli di oggi, secondo la Biennale di Ralph Rugoff. Con ironia della sorte, “interessante”, nella fruizione artistica, è spesso un termine di cortese diplomazia davanti a opere che non piacciono. Cosa trova realmente interessante, e cosa invece non le piace, di questi anni, e non solo in arte?
Non l’ho vista, mi spiace, io non vado da anni alla Biennale. Io auspico che la volontà del titolo si rivolgesse a un’arte in stato interessante, gestante, perciò a uno stato di attesa.
Io sono sempre stato di sinistra, di una sinistra forte. E io, come tanti comunisti della mia epoca, sono stato tradito. Ci illudevamo di essere vaccinati dalla propaganda americana. A distanza di anni scopro di no: noi tutti cosiddetti intellettuali o intellettuali del dopoguerra eravamo stati vittime ‒ tanto quanto ingenui ‒ della propaganda americana. Una propaganda che ha lavorato profondamente, con l’economia, il Piano Marshall, i media, fin da allora, fino ad arrivare alle primavere arabe, all’Ucraina, ahimè alla Polonia, fino alle cinque stelle, fino ai gilet gialli, alla Brexit… È un lavoro profondo e lunghissimo, che non ha risparmiato l’arte.
Che cosa intende?
L’arte è oggetto di una manipolazione propagandistica, che è quella del mercato, del consumismo dell’arte. È un serpente che si mangia la coda, un re nudo. Anche nell’arte, dunque, e nelle aste, sappiamo che è tutto un rapporto di forte attività propagandistica, che però ha talmente usurato se stessa da diventare ridicola, come è diventata ridicola la tendenza museale, artistica, curatoriale. Tutto diventa talmente propagandisticamente popolare e macroscopicamente popolare. C’è sempre stata la propaganda, anche ai tempi di Giulio II e Michelangelo. All’epoca il popolo era ignorante, ma focoso; il popolo di oggi invece no. Siamo arrivati a un rapporto tra società e arte molto similare. Una macro-informazione talmente macro da diventare grottesca, caricaturale.
Il divenire permea l’essere, nella sua arte, palesando come l’unica verità sia l’impermanenza. Le sue opere, come animali o esseri viventi, respirano, crescono, decadono, e questo le rende più vicine, induce una partecipazione “da simile a simile” nel fruitore. Ma quale predisposizione interiore auspica, innanzi a esse, per ascoltarne davvero la voce?
È veramente difficile rispondere. Perché credo che l’artista sia un sordomuto, con grandi facoltà di ascolto e di percezione. Quindi non so se sono – come ogni artista – sordo o iper-udente, se sono cieco o iper-vedente. Come facciamo a capire se questa scoria, questa specie di risultato, che è l’opera, deve rimanere fantasma, ologramma di sé, presenza, voce, cosa silente? Non lo saprei dire. Lo vedremo più avanti. Se un’opera continua a mormorare a dieci, venti, trenta, quarant’anni di distanza, forse il fantasma che l’ha animata qualcosa ha lasciato. Ma è molto difficile poterlo definire, con la volontà dell’artista non si può, né si può esserne coscienti.
Vorrei trovare un modo elegante per dirlo, ma io ho totale disinteresse per il lettore dell’opera. Non lo considero proprio. È una cosa che non si dovrebbe dire mai, perché sembra che non vi sia rispetto per il pubblico. Ma in effetti il mio alter ego, il mio ascoltatore, non è lo spettatore. Sono io stesso. Sono molto al buio in questo senso, non penso proprio allo spettatore.
Un disinteresse che però non è sinonimo di noncuranza.
Infatti, non è violenza, è proprio sordità, quella sordità di cui le dicevo, questo muoversi tra ombra e buio.
Quali sono i futuri desideri e tracciati della sua arte?
Della mia arte non lo so. Il mio desiderio futuro nell’immediato è riuscire a partire tra qualche giorno per un’isola greca e mettermi in acqua e al sole. Non ho altri desideri più ampi al momento.
Se parliamo di acqua e sole, già stiamo parlando di qualcosa di cosmico…
Esatto.
Interviene la moglie dell’artista: “Diceva un poeta giapponese: ‘Se veramente vuoi vedere le cose, accecati gli occhi; se veramente vuoi sentire le cose, tappati le orecchie’”.
Infatti è così. In un ascolto cieco e muto, almeno nascono delle ombre strane. Pericolosissimo, per carità. Il grande rischio è il solipsismo, la maniacalità. Ma una buona tenuta di artista questi ostacoli li supera.
‒ Diana Gianquitto
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