Artisti da copertina. Parola a Silvia Morin
Intervista all’autrice della cover del nuovo numero di Artribune Magazine, presto in distribuzione. Una chiacchierata a tutto campo sui temi che attraversano la poetica fotografica di Silvia Morin.
Classe 1988, studi all’Accademia di Belle Arti di Bari e Fotografia a Brera, Silvia Morin ha iniziato come pittrice ma ha subito scoperto, quando aveva 14 anni, la passione per il teatro, la danza, la performance e, soprattutto, l’autoritratto. Interpreta donne del passato o implicate in fatti di violenza e cronaca nera. Affronta temi sociali che diventano necessariamente politici. E lo fa nella sua camera, dove ricostruisce set bizzarri per i suoi scatti. “Il femminismo si è interessato a me”, dice. La sua è una ricerca investigativa, documentaristica, mimetica, ma sempre giocata sul confine labile tra reale e ipotetico. L’obiettivo è “incarnare diverse identità fisico-psicologiche e analizzare quale sia la radice della violenza nell’incontro tra generi”.
Quando hai capito che volevi fare l’artista?
Presto, sono figlia d’arte, mio padre è un pittore.
Hai uno studio?
Da sempre lavoro in spazi domestici.
Quante ore lavori al giorno?
Scatto le fotografie dalle 11 alle 14, la luce che preferisco.
Ami lavorare prima o dopo il tramonto?
Prima, succedono cose terribili al buio.
Che musica ascolti, che cosa stai leggendo e quali sono le pellicole più amate?
Mentre lavoro non ascolto nulla, mi concentro sui secondi dell’autoscatto. Sto leggendo Dalla violenza all’impegno: storie al femminile per costruire il cambiamento, a cura di Libera contro le mafie, e Le donne, la mafia di Renate Siebert. Sono un’appassionata di Pedro Almodóvar.
Un progetto che non hai potuto realizzare ma che ti piacerebbe fare.
Nel 2016 ho lavorato a un progetto in memoria di Lea Garofalo, uccisa dalla ‘Ndrangheta nel 2009. Ho cercato i fondi ma non erano abbastanza.
Qual è il tuo bilancio fino a oggi?
Vorrei lavorare di più e collaborare con realtà legate al sociale.
Come ti vedi tra dieci anni?
Il futuro? Mi terrorizza.
Hai cominciato come pittrice. A soli 14 anni hai frequentato il teatro, appassionandoti di danza, scenografia e canto. Quest’esperienza è stata cruciale nel tuo percorso?
Certo, anche se il punto di approdo è sempre l’immagine fotografica.
Interpreti donne del passato come Franca Rame, Edie Sedgwick o implicate in fatti di cronaca e violenza, come l’episodio di Wilma Montesi avvenuto nella provincia di Roma il 9 aprile del 1953. Come scegli le donne che impersoni?
Sono attratta dalle loro storie: chi amavano, cosa pensavano, qual era la loro condizione psicologica. Inevitabilmente il lavoro prende una piega politica/femminista ma l’intento è connesso a un sentimento che mi lega a loro per motivi che hanno a che fare con la mia storia personale.
Nella tua camera improvvisi set bizzarri per i tuoi scatti. Da dove parte la tua ricerca?
Quello che succede nella mia camera è interessante, lì nascono i personaggi. Mi confondo con loro, l’abbigliamento è lo stesso che uso nella vita quotidiana. Scatto fino a quando l’equilibrio dell’immagine diventa perfetto. La volontà è restituire, con il pretesto dell’arte, vite che sono state spente. Sento la loro fragilità e ricompongo nel “ritorno” la forza che mi porta in uno stato di riconciliazione tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male, una condizione spirituale che mi piacerebbe restituire allo spettatore.
Le fotografie sono il risultato di un lungo processo. Alla base però c’è sempre un lavoro di tipo performativo, che si tratti di performance aperte al pubblico o realizzate nella tua camera e documentate. Hai scritto che l’obiettivo è “incarnare diverse identità fisico-psicologiche e analizzare quale sia la radice della violenza nell’incontro tra generi”. Ci spieghi meglio?
L’obiettivo è identificarmi in queste donne, studiare le biografie e incrociare la mia vita con la loro, analizzare quale sia la radice del dolore che ci accomuna. Il dato importante è la loro condizione psicologica prima della morte. È un lavoro sul ritorno. Queste donne ritornano e parlano della condizione di una donna che soffre. Nella maggior parte dei casi la causa del dolore e della morte avviene nell’incontro/scontro con un uomo. Questo è ciò che m’interessa e che cerco di analizzare.
Nel 2015 hai partecipato alle selezioni per Uomini & Donne di Maria De Filippi. Da questo è nato il lavoro A New Television Girl. Ci racconti?
È stato un tentativo di spostare il lavoro su un display diverso da quello dell’arte. Mimetizzarmi con un personaggio televisivo mi portava a diventarlo. Il confine tra il reale e l’ipotetico mi straniva, al punto che non capivo più che direzione stesse prendendo il lavoro. Prima di me nel ’95 il duo Arpiani/Pagliarini è riuscito nell’intento, portando alla luce un lavoro straordinario che non ha ancora trovato giustizia. A quel lavoro ho dedicato la mia tesi, che ha avuto come relatore Marco Senaldi.
Com’è nata l’immagine inedita che hai creato per la copertina di questo numero?
Da un po’ lavoro su Imane Fadil, teste nel processo Ruby Ter contro Berlusconi, che si presume sia stata avvelenata. Il mio approccio alla questione non è di natura politica ma sentimentale. È stata avvelenata, la storia è finita e io sono triste. La riporto in vita con una serie di immagini e le do voce. Ho scritto un testo per lei.
‒ Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
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