Pittura lingua viva. Speciale OPENWORK
La consueta rubrica di Damiano Gullì dedicata ai pittori italiani contemporanei stavolta cede la parola ai protagonisti del progetto “OPENWORK”. Un dialogo fra artisti e curatori nel segno, ancora una volta, del linguaggio pittorico.
Da aprile a giugno 2019 si è svolto nello spazio SenzaBagno di Pescara OPENWORK, a focus on paintings, un progetto di Simone Camerlengo e Francesco Alberico dedicato alla pittura osservata “nel tempo del suo sviluppo”. Sette appuntamenti per analizzare il mezzo pittorico, i suoi processi e fasi di realizzazione, in un costante scambio e dialogo con il pubblico. Sette artisti ospitati, ognuno presentato da un curatore: Thomas Braida e Lisa Andreani, Matteo Fato e Simone Ciglia, Simone Camerlengo e Francesca Campana, Giulio Saverio Rossi e Saverio Verini, Sergio Sarra e Giuliana Benassi, Andrea Kvas e Giulia Pollicita, Pesce Khete e Cecilia Canziani. OPENWORK offre così nuovi spunti per una riflessione sulla pittura ma, questa volta, la parola passa ai curatori.
Come è nato OPENWORK?
Simone Camerlengo: Nel mio percorso e nella mia ricerca artistica mi sono principalmente focalizzato sul medium della pittura. Ho sempre avuto, anche negli studi, particolare interesse riguardo alla sfera intima della figura dell’artista; ponendomi domande del tipo: come e quando si genera il “quadro”? Quali caratteristiche formano l’artista come individuo? Cosa c’è dietro l’opera compiuta? Quanto è importante? Da queste questioni, da questa mia predisposizione, dall’attitudine rivolta all’osservare la fase di realizzazione e dal desiderio di rendere il mio studio (SenzaBagno) uno spazio dinamico e vivo, ho dato vita a questo progetto.
Perché avete sentito la necessità di coinvolgere più curatori?
Simone Camerlengo: Si è deciso di invitare la figura del curatore per diversi fattori. Sicuramente c’è stata l’intenzione di voler creare nuove connessioni con altre realtà, insieme all’idea di voler rendere ancor più dinamico il contesto che vivo, che mi circonda. Con l’idea di affiancare un curatore a ogni artista, si voleva porre agli stessi partecipanti una sfida, in quanto nella maggior parte dei casi sono artisti e curatori che per la prima volta si sono trovati a lavorare insieme. Un momento da vivere in cui approfondire il lavoro e conoscere il proprio partner. La figura del curatore, dunque, ci ha aiutato a spostare il progetto a un livello più dialogico, di confronto, di studio e dibattito. Non volevamo che gli appuntamenti fossero dei momenti in cui il tipo di fruizione della pratica artistica fosse “fredda”, vicina a un’ottica performativa, un’osservazione passiva del processo creativo.
Quale è stato il vostro approccio curatoriale al progetto?
Lisa Andreani: Devo dire che il mio approccio curatoriale è stato pressoché intuitivo e credo si sia rilevato interessante proprio per questo. Conoscevo il lavoro di Thomas Braida, ma non così approfonditamente, e fino a quel momento non avevo mai nemmeno dialogato con lui. Infatti è stato più che curioso arrivare con un certo immaginario onirico e fantastico di Braida e scoprire che avrebbe dipinto una marina. Il testo che avevo scritto su di lui molto lontanamente descriveva il lavoro! Ho iniziato allora a ragionare sugli slittamenti che questo processo organizzato da Simone Camerlengo poteva creare. Credo di essermi posizionata più nel ruolo del generatore di domande. Insieme a Simone, Thomas, ma anche Matteo Fato, abbiamo iniziato a interrogarci sulle forme di questo progetto, sulle sue finalità e sulle sue possibili e notevoli differenti restituzioni.
Giuliana Benassi: Di dialogo con l’artista. In primis con Simone Camerlengo, dal quale ho ricevuto l’invito. Ho subito apprezzato il progetto, non solo il format specifico sul processo pittorico, ma anche il progetto come azione, come volontà da parte di un giovane artista di mettersi in gioco e creare energia a partire dal proprio studio, trasformandolo in piattaforma per innescare dialoghi con altri artisti. Perciò ho mantenuto la stessa linea con Sergio Sarra, con il quale ho avuto il piacere di approfondire la conoscenza semplicemente attraverso incontri e chiacchierate che hanno preceduto il talk a SenzaBagno. Ho avuto modo, così, di entrare ancora più da vicino nel suo universo studio-vita.
Giulia Pollicita: Come ho scritto nel comunicato stampa introduttivo alla residenza che ho condiviso con Andrea Kvas, non avevo mai visto di persona le sue opere prima del progetto. Il primo giorno trascorso insieme a Pescara ho cercato pertanto di osservare il più possibile il suo metodo di lavoro e il suo rapporto con la presenza del pubblico durante la produzione dell’opera, che energia si creasse e scorresse tra Andrea e gli spettatori. In questo senso mi sono fatta da parte per osservare e cogliere la chiave di lettura più efficace per intercedere alla comprensione del lavoro di Andrea in sede di talk, avvenuto il secondo giorno. Il mio approccio direi che è stato di affiancamento, esplicativo laddove i concetti espressi da Andrea ho ritenuto non fossero pienamente recepiti dal pubblico ‒ a tal proposito aggiungo che abbiamo affrontato un interessantissimo dibattito, vissuto da tutti i presenti con toni vivaci. Ma comunque ad Andrea non sono di certo mancate le parole per raccontarci il suo lavoro.
Saverio Verini: Mi sono avvicinato a OPENWORK con grande curiosità, su invito di Simone Camerlengo e Francesco Alberico, con i quali avevo collaborato nel 2018 in occasione di Straperetana, progetto artistico che curo in Abruzzo. Sono arrivato a questa “residenza breve” senza troppe aspettative, senza chiedermi cosa avrei fatto in quei tre giorni, ma lasciandomi guidare dall’istinto. Ho cercato di mantenere la stessa curiosità nell’accostarmi a Giulio Saverio Rossi, l’artista al quale ero stato precedentemente abbinato, che non conoscevo. Con Giulio Saverio c’è stata una vera e propria marcia di avvicinamento alle giornate che avremmo trascorso insieme a Pescara: ho visto una sua mostra a Bologna (da CAR DRDE) ci siamo incontrati di persona, abbiamo scambiato email e idee sull’arte e sulla pittura in generale, senza tuttavia far riferimento a cosa avremmo combinato concretamente una volta a Pescara. Ne è nata una conversazione scritta che ci ha fatto conoscere meglio (una specie di fase di “riscaldamento”, utilizzando un termine sportivo) e che è stata poi utilizzata come testo d’introduzione alla nostra residenza.
Ai fini della narrazione della disciplina, quali sono secondo voi i vantaggi del focalizzarsi sul processo pittorico piuttosto che sull’esito finale?
Lisa Andreani: Come è stato emblematico nel mio caso, soffermarsi sul processo pittorico significa venire a patti con l’ignoto soggetto, l’impossibilità totale di realizzazione del lavoro, la messa in discussione. Qualcosa di totalmente differente rispetto al posizionarsi davanti al lavoro finito. Il luogo non era neutro, lo studio era infatti connotabile da ogni figura che si è inserita al suo interno. Oltre all’elaborazione del processo pittorico mi hanno molto incuriosito gli scarti, lo sporco che stava a terra.
Giuliana Benassi: Credo che in generale, nell’arte come nella vita, dipendere dall’esito sia un atteggiamento fallimentare. Tutto sta nel processo: la ricerca, l’errore, la scoperta, il dubbio, il rischio e la crescita.
Giulia Pollicita: Secondo il mio parere, focalizzarsi sul processo pittorico in questo momento storico può essere considerato complementare a una riscoperta della disciplina pittorica. Penso ci sia un ritorno diffuso al medium tradizionale del quadro, anche con una certa attenzione verso il figurativo che fa l’occhiolino agli Anni Ottanta ‒ non solo alla Transavanguardia ma anche ai minori che hanno costellato quel periodo, insieme a qualche artista pioniere nella ripresa della pittura negli Anni Settanta, come ad esempio Vespignani. Studiando in sede accademica, mi sono resa conto di quanto in parte questo decennio sia ancora oscuro, tutto in fase di riscoperta e probabilmente fonte di ispirazione. Dall’altro lato abbiamo invece un filone astratto che riflette più analiticamente ‒ sebbene spesso non nel senso storico che ha questo termine ‒ sul linguaggio della pittura, sulla ricombinazione dei suoi elementi anche con strumenti non tradizionali. Penso a tutto il serbatoio di conoscenze di lavorazione della materia che spesso gli artisti travasano dal campo dell’edilizia, dell’industria, oppure del teatro, come avviene per Andrea Kvas stesso, che ha spesso sottolineato il fatto che nel suo lavoro non utilizzi gli strumenti delle Belle Arti. Un dato che, se non avessi assistito al procedimento di creazione delle sue opere, non avrei appreso o riconosciuto in tutto il suo peso, anche in relazione, come dicevo, al lavoro di molti altri artisti contemporanei.
Saverio Verini: Non sono così sicuro che concentrarsi sul processo abbia dei vantaggi in sé, nemmeno dopo aver partecipato a questo progetto. Dipende molto dall’artista, dal suo bisogno di isolamento e concentrazione, dalla sua predisposizione a poter essere interrotto potenzialmente in qualsiasi momento, o anche soltanto a vedersi ronzare attorno delle persone. In ogni caso, almeno per la mia esperienza, credo sia stato un esperimento positivo: sia per i visitatori, che hanno avuto modo di accostarsi alla pratica dell’artista, sia per l’artista, che ha avuto modo di misurarsi con questa condizione inusuale. Anche la conversazione aperta al pubblico, momento culminante della residenza, è stata sicuramente stimolante. E una delle cose migliori del progetto ritengo sia stata l’aver accoppiato, in alcuni casi, artisti e curatori che non si conoscevano così bene, favorendo uno scambio privo di condizionamenti e visioni scontate.
Cosa significa oggi scrivere di pittura e curare mostre e progetti legati a questo mezzo? In un’epoca di scambi e attraversamenti disciplinari, è giusto che ci sia una specializzazione critica finalizzata a una valorizzazione della disciplina o è anacronistico e si rischia, paradossalmente, di alimentarne una (auto)ghettizzazione?
Lisa Andreani: Domanda complessa alla quale temo di non saper pienamente rispondere. Nei miei progetti curatoriali recentemente mi sento molto più uno scenografo e un architetto che un curatore. Per me è sempre rilevante creare la miglior scena per le opere, il miglior scenario possibile. Detto questo, credo che, nonostante l’epoca sia ricca di scambi e pluridisciplinarità, sia più che necessario avere delle figure veramente specializzate su una singola pratica, anche per vedere le plurime possibilità di un’opera. Per esempio mi ritengo molto fortunata a condividere molti progetti ed esperienze insieme a Simona Squadrito, persona che credo incredibilmente portata per la lettura pittorica. Ascoltandola ho imparato molto: a individuare un certo tipo di gestualità, pennellata o uso del colore, dettagli non da poco ma per i quali abbiamo perso una certa attitudine. Inoltre, la semiotica dell’immagine è effettivamente una delle discipline che ci permette di porre in questione il segno, la pittura che si manifesta come pittura anziché come figura rappresentata. Credo ci siano nuovi e vecchi punti dai quali ripartire.
Giuliana Benassi: Oggi è importantissimo scrivere di pittura e curare mostre di pittori. Oggi come ieri e come domani. Personalmente non credo in nessuna ghettizzazione nell’arte, al contrario trovo del tutto riduttivo incasellare i linguaggi in definizioni e settori, soprattutto in questo momento storico.
Giulia Pollicita: Credo che una specializzazione critica sulla disciplina pittorica sia efficacemente possibile solo se concepita in continuità e osmosi con tutti gli altri ambiti dell’arte. Per cui sì, si può valorizzare la disciplina, ma per farlo è necessario tener conto di tutto quello che avviene in concomitanza ‒ se penso al lavoro di Andrea, ad esempio, non credo sia possibile segmentarne gli ambiti di produzione. Credo che sarebbe un errore pensarlo, ma detto questo trovo sia comunque lecito, presa visione del lavoro complessivo di un artista, scegliere di specializzarsi su una determinata categoria con cognizione di causa.
Saverio Verini: Penso che momenti come questo aiutino ad alimentare l’interesse per la pittura, ma direi in generale per l’arte: si parla, si mettono sul tavolo dubbi e perplessità, ci si confronta di persona, si risponde a domande magari elementari, ma al tempo stesso cruciali (a cosa ci si ispira; qual è il tempo di realizzazione di un dipinto; quali materiali vengono impiegati…). Quest’esperienza, così come altre (mi viene in mente il Simposio di Pittura promosso dalla Fondazione Lac o Le Mon in Puglia) vanno nella direzione di un’apertura positiva. Per quanto riguarda il medium pittura: è evidente che abbia delle sue specificità (come del resto tutti gli altri linguaggi espressivi), che forse lo rendono più facilmente adattabile a iniziative di questo tipo. Naturalmente ci sarebbero infiniti distinguo da fare, ma penso che la pittura, rispetto ad altri mezzi, abbia dei tempi diversi, una possibilità di restituzione del processo (anche se embrionale) più immediata, materiali e supporti più facilmente “visualizzabili”. Insomma, ritengo che il processo pittorico si possa toccare più facilmente, ma, ripeto, si tratta di un discorso che andrebbe precisato e non estendibile a chiunque utilizzi la pittura. In tutto questo, è importante che artista e curatore condividano una grammatica di riferimenti alla storia della pittura: non per rendere il discorso autoreferenziale, ma per meglio capirsi e restituire al pubblico uno sguardo personale e consapevole, senza necessariamente far pesare citazioni e rimandi.
Cosa pensate della scena della pittura italiana contemporanea e come leggerla in rapporto a quella internazionale?
Lisa Andreani: Credo che la scena pittorica italiana contemporanea sia più in fermento di quella di altre espressioni artistiche e credo anche si possa inserire con molta facilità nel contesto internazionale. La vedo ricca di possibilità proprio perché, consciamente o inconsciamente, sincera. Credo che sia un figurativo, quello che maggiormente vedo espresso, legato alla mitologia, alla narrazione di storie, al nostro essere antichi, al naturale e al magico.
Giuliana Benassi: La scena della pittura italiana penso che abbia un’identità forte. Grazie a molti artisti che hanno la capacità di fondere una grande attitudine pittorica con una forte propulsione visionaria e di sperimentazione. E credo che possa dialogare a livello internazionale. Per quanto riguarda il confronto con la scena internazionale, il problema non sta nel linguaggio pittorico in sé e per sé, ma nella scena artistica italiana in generale che stenta a dialogare a livello internazionale. E non sono affatto convinta che la responsabilità sia degli artisti o del loro linguaggio…
Saverio Verini: Non sono sicuro di poter rispondere a una domanda così complessa. Mi limito a dire che ci sono tantissimi pittori italiani in gamba (molti dei quali ho avuto il piacere di approfondire grazie alla rubrica Pittura lingua viva) in grado di esprimere una visione attraverso la pittura, di raccontare uno stato d’animo, una tensione, uno sguardo sul nostro tempo, senza limitarsi a una cronaca. La pittura – che ha alle spalle secoli di sperimentazioni, pratiche e riflessioni – vive oggi di spostamenti e avanzamenti millimetrici; ecco, ho l’impressione che molti autori italiani siano in grado di percorrere quel millimetro in maniera originale e pensata.
‒ Damiano Gullì
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