Navigare sull’Adige in canoa. Intervista a Daniele Girardi
Parola a Daniele Girardi, protagonista di una nuova “wild residency” sulle acque del fiume Adige.
Se vi aspettate di ritrovare gli Sketch Wild book – le Moleskine dal vissuto segnato a causa della permanenza a contatto con la wilderness della Val Grande o delle più lontane e solitarie lande dei Paesi scandinavi – resterete sorpresi, ancora una volta, da Daniele Girardi (Verona, 1977) e dal suo inedito percorso di ricerca. L’artista ha esposto per la prima volta una selezione di scatti dal suo archivio degli ultimi cinque anni di residenze nella natura selvaggia all’interno della mostra Everyday life. Economia globale e immagine contemporanea, curata da Gabriele Lorenzoni e Carlo Sala, organizzata dal MART e conclusasi alla Galleria Civica di Trento il 1° settembre. Il punto di vista dal quale l’artista sta esplorando la natura è tanto limitato – solo apparentemente – quanto inaspettato: l’obiettivo di una macchina fotografica monouso.
La ricerca dell’ultima wild residency di Girardi conduce su un fiume: Panta rhei, una navigazione di quattro giorni in canoa da Verona al mare Adriatico via Adige per tentare una mappatura poetica del suo corso.
L’INTERVISTA
Che cosa ci puoi raccontare di questo tuo ultimo progetto?
È stata un’esperienza densa, vissuta in una dimensione molto particolare, a stretto contatto con l’elemento acqua: solitudine, silenzio, assenza del fattore umano e tantissima fatica.
Alla partenza non ero del tutto consapevole della lunghezza del tragitto: ben 160 km in canoa lungo il fiume Adige, partendo dal centro della città di Verona per arrivare alla foce nel mare Adriatico. Studiando il percorso sulla carta ti fai sì un’idea, ma è poi l’esperienza concreta a farti capire che è il fiume a dettare le condizioni. Oltre alla fatica fisica – dovuta al fatto di dover pagaiare per otto ore per quattro giorni consecutivi –, un paesaggio desolato, un caldo torrido, insetti, vento contrario, sabbie mobili e assenza di corrente hanno creato quella dimensione che rispecchia in pieno ciò che cerco nell’esperienza dei miei viaggi.
Nonostante queste difficoltà, come sei riuscito a raggiungere il tuo obiettivo?
Di sicuro non sono stato aiutato dalla fortuna. Poco dopo la partenza ci siamo imbattuti in un ostacolo che ha provocato la foratura del nostro “mezzo di trasporto”. È stato il momento chiave di questa esperienza: potevamo rinunciare, invece in un paio d’ore abbiamo trovato il modo di aggiustare la canoa e ripartire. Abbiamo viaggiato tutto il tempo con la preoccupazione di trovarci a imbarcare acqua da un momento all’altro, ma alla fine la toppa che avevamo utilizzato ha tenuto benissimo. Inoltre, abbiamo deciso di non utilizzare tecnologia, come per esempio applicazioni varie o geolocalizzatori.
Prima di partire ho realizzato una raccolta di mappe di tutto il percorso – circa quaranta tavole cartografiche stampate su carta, quasi a creare una sorta di diario di bordo – e per calcolare le distanze e i tempi abbiamo utilizzato un semplice pezzo di spago.
Questi mezzi analogici da nostalgici marinai, nella loro apparente imprecisione, mi hanno insegnato molto e condotto fino al mare.
Perché hai deciso di fare questo viaggio?
Il mio lavoro si nutre di queste esperienze e negli ultimi anni di ricerca sono stato suggestionato da dimensioni che trovo nella natura incontaminata o nell’abbandono della stessa. In questo momento vivo ai margini della mia città, tuttavia il fiume ha sempre avuto su di me un forte ascendente. Inoltre, dopo il tratto cittadino, l’Adige diventa terra di nessuno, perciò mi sembrava interessante tentare una mappatura poetica del suo corso. Circa un anno fa, con un amico abbiamo iniziato a pensarci per poi, quest’estate, mettere le pagaie in acqua. Un ruolo fondamentale è stato quello di Luigi Spellini, vicepresidente del Canoa Club di Verona e responsabile del progetto Adige via d’acqua: oltre a essere promotore culturale, ha motivato e supportato la logistica di tutto il viaggio.
Hai un’idea di cosa potrebbe nascere da questa esperienza?
Le esperienze diventano parte integrante della nostra identità, diventiamo la somma totale di quello che abbiamo vissuto e ciò mi spinge a realizzare progetti con queste modalità, è il flusso del percorso che mi interessa e non un fine documentaristico. Quando torno da questo tipo di esperienze non riesco mai a valutare nell’immediato che cosa sono state, per ora rielaboro soltanto dei ricordi, delle memorie fluviali. Tuttavia, per capire come le tradurrò, servirà del tempo. Sono ancora troppo coinvolto da questo viaggio nella sua mera oggettività per capire, adesso, che cosa ho realizzato. Non avrebbe senso in questo momento riportare una descrizione poetica dell’esperienza. Sì, certo, c’è qualche disegno, delle mappe o qualche foto ma per ora, usando una metafora, è tutto nelle sacche stagne che abbiamo utilizzato.
Quali sono le differenze rispetto al viaggio nei Paesi scandinavi, da cui è nato il progetto North_Way?
La differenza sostanziale è che questo viaggio non è stato in solitaria – modalità che ha sempre caratterizzato le mie residenze nei luoghi selvaggi –, ma in coppia con un amico. Poi, per la prima volta, ho esplorato il territorio in cui vivo e affrontato una navigazione così lunga su un fiume, elemento vivo. Mentre il lago – mi riferisco ai laghi della Finlandia – è uno specchio più contemplativo, grazie al fiume mi sono confrontato diversamente con l’elemento acqua, un elemento che scorre e che non è il tuo, non è la terra, ed è capace di cambiare le tue percezioni, fisiche e temporali. E poi l’idea, simbolica, di arrivare al mare, di arrivare a qualcosa che si disperde.
Perché hai dato il nome Panta rhei a questa esplorazione artistica?
Perché non ci si può bagnare nello stesso fiume per due volte, ogni esperienza che facciamo è irripetibile e, anche se sembra uguale, non lo è. Durante il viaggio, non ho interagito con la rete dei social network per non rubare tempo al presente. In questo tipo di esperienze, credo che non tutto debba essere condiviso perché i momenti più preziosi verrebbero presi e gettati in uno spazio anonimo, ancora prima che prendano forma e contenuto.
Invece, penso che vadano tutelati: c’è il tempo in cui un’esperienza si vive e poi, se necessita, il momento in cui si condivide: il frastuono comunicativo non è l’andatura del fiume.
Quello che cerco è una salutare disconnessione, un silenzio che fa la differenza nella vita di tutti i giorni.
‒ Federica Lavarini
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