Inquietudini e macchine da corsa. Intervista a David Cronenberg
Protagonista della mostra allestita al MAC – Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, David Cronenberg è autore di “Red Cars”, il libro d’artista, edito da Volumina, ispirato al mondo della Formula 1 e delle Ferrari in particolare. Fra storytelling e realtà.
Era il 10 settembre 1961 quando i ferraristi Phil Hill e Wolfgang von Trips divoravano l’asfalto dell’Autodromo di Monza contendendosi il titolo mondiale. Ma von Trips non tagliò mai il traguardo, rimanendo vittima della velocità e di un incidente tragicamente riportato negli annali della Formula 1. La vicenda, destinata a lasciare un segno indelebile nella storia della Ferrari, è uno degli eventi ai quali si è ispirato David Cronenberg (Toronto, 1943) per dare vita a Red Cars, sceneggiatura di un film rimasto incompiuto, poi trasformato in un libro d’artista. Un lavoro che sfugge alle definizioni e che ora è in mostra al MAC di Lissone. Ne abbiamo parlato con il regista canadese.
Parliamo di Red Cars. Quando ha iniziato a elaborare questo progetto e perché?
Tutto è cominciato dopo Crash. Da grande appassionato di Ferrari e di motori ero interessato a questa vicenda che riuniva più storie: la rivalità sportiva dei due piloti Ferrari molto diversi fra loro, Phil Hill e Wolfgang von Trips, l’americano rampante e l’europeo introverso; le loro auto soprannominate “Sharknose” per il muso aggressivo e la figura imponente di Enzo Ferrari, che giganteggia sul mondo della Formula 1.
Red Cars è un libro d’artista, ma all’inizio era una sceneggiatura. Come ha tradotto l’approccio cinematografico in un libro? L’idea di storytelling è parte del progetto?
Sì, era la sceneggiatura per un film che poi non ho fatto. Avevo già pensato a Mel Gibson per incarnare Phil Hill, il quale peraltro non aveva mai amato molto l’idea di far rivivere sullo schermo la vicenda. Si aggiunge che l’attore e il pilota si erano incontrati, e Gibson, vedendo Hill poco convinto, non se la sentì di recitare la parte. Proponemmo quindi a Brad Pitt, che però non era amante delle automobili e dunque non trovava appassionante l’idea. Il progetto si fermò lì. Alcuni anni dopo, parlai del progetto con Domenico De Gaetano, direttore di Volumina, e nacque l’idea di farne un libro d’artista. Naturalmente era impossibile proporre un volume di soli testi, pertanto iniziò un lunghissimo lavoro di ricerca negli archivi della Ferrari e del Museo dell’Automobile di Torino per trovare immagini e suggestioni adatte a corredare i testi, una volta rimaneggiate secondo le mie visioni. Il libro nacque così e fu un lavoro appassionante: io a Toronto e la mia troupe in Italia.
La storia della Ferrari è una leggenda nota in tutto il mondo. Quali aspetti di questa vicenda e di quella legata al tragico incidente di von Trips durante la gara del 1961 hanno catalizzato la sua attenzione?
La Ferrari è un mondo complesso, che suscita passioni indescrivibili. L’idea che Enzo Ferrari abbia voluto distruggere il modello smantellandolo pezzo per pezzo al termine della stagione spazzandolo via dalla storia e facendolo entrare nel mito ha costituito per me una enorme attrattiva: cercare i disegni, le parti del motore, è stato come cercare dentro il cervello degli ingegneri. Poi la figura di Phil Hill. È stato il primo pilota americano a diventare campione di Formula1, un avvenimento incredibile, anche perché prima di lui la Formula 1 era considerato uno sport molto europeo. Anche se la sua vittoria è coincisa con la morte del suo compagno di scuderia che rende tutta la storia una po’ amara…
Quale ruolo gioca “l’incidente” nel suo modo di progettare un film e anche un libro d’artista?
Crash era incentrato sulla relazione fra vita, sesso, morte, e il senso dell’incidente si innesta su questa relazione. Ma Red Cars è altro, è duello fra due personalità, due stili di vita, è un racconto di storie, pensieri, inquietudini. L’incidente si innesta su questo e cambierà la storia della Ferrari. In fondo le auto sono un prolungamento del corpo umano, un ambiente tecnologico in cui stare.
I concetti di perfezionismo, ossessione e l’interesse verso i sentimenti più viscerali dell’uomo sono aspetti chiave della sua poetica. Ha ritrovato le medesime tematiche nella storia della Ferrari?
Sì, in particolare nei sentimenti intrinseci dei protagonisti, a partire da Hill, che vuole controllare tutto ciò che lo circonda. Anche la sua alimentazione consiste in omogeneizzati e vomita prima di ogni gara, fa sogni premonitori destabilizzanti ed è ossessionato dalle letture di Sartre. Ognuno ha una sua parte interiore che nel libro facciamo emergere, ognuno le sue inquietudini che si rivelano come vere e proprie ossessioni.
Qual è la sensazione dominante in Red Cars? E qual è il suo significato oggi, a quattordici anni dalla sua realizzazione?
Sicuramente le inquietudini di Phil Hill, e più in generale l’inquietudine. La vivono i piloti, la vive la moglie di Enzo Ferrari, la vive Enzo Ferrari, l’uomo che decide tutto: di non partecipare al Gran Premio finale per lutto ma anche per qualcosa di più profondo. E di far smantellare il modello. Ma sono molto attratto dal processo di trasformazione creativa del progetto Red Cars, una sorta di mutante artistico: nasce come sceneggiatura cinematografica, si trasforma in un libro con la copertina di alluminio e adesso viene riproposto sotto forma di mostra con i rumori della auto da corsa.
Ho sempre amato il senso di ineluttabilità dei suoi film e anche lo sguardo lucido e implacabile sulla realtà che li caratterizza. Crede siano dei buoni strumenti per osservare il presente?
Nell’arte sì. L’arte infatti non deve essere politically correct o edulcorata. Deve disturbare il più possibile, smuovere, essere libera di raccontare.
‒ Arianna Testino
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