La poetica dello spazio. Parola a Edoardo Tresoldi
“Simbiosi” è il titolo della nuova opera che Edoardo Tresoldi ha realizzato ad Arte Sella, il parco artistico del Trentino dedicato agli intrecci tra natura e arte. Ricondurre il rudere all’interno di un mondo onirico fatto di rete. Questa l’idea di partenza del nuovo lavoro dell’artista milanese. Il fascino del passaggio del tempo attraverso un dialogo stretto tra natura e architettura. Ne abbiamo parlato con lui.
Al centro di questo tuo nuovo lavoro c’è la rovina, il rudere. Rievoca un immaginario romantico, pensiamo a John Ruskin che definì la rovina un ritorno dell’architettura allo stato naturale. In questo caso la tua operazione è più complessa, sei tu che ricostruisci la rovina…
La rovina è un elemento architettonico cui mi ispiro molto. Dopo aver lavorato con l’archeologia, in qualche modo ho cominciato un percorso di avvicinamento, perché in fondo mi piace l’idea di approcciarmi all’architettura proprio mentre sta morendo. Il rudere l’ho considerato sempre una sorta di monumento, e a differenza delle architetture monumentali del primo Novecento, che rispondono all’idea del “superuomo”, la rovina è un monumento alla fragilità umana soprattutto perché ci racconta il passaggio del tempo, come gli anziani appaiono fascinosi nonostante portino con sé tutti i segni della loro vita. Poi interessante è l’indagine concettuale attorno alla rovina, l’architettura è un qualcosa che viene pensato, progettato per essere intero, non esiste nessuno che la progetti pensando a come si decomporrà. Oppure si tende a pensare più a come farla durare nel tempo che a come sarà bella nel momento in cui comincerà a rompersi.
In questo caso il rudere appare ancor più enfatizzato per l’uso della pietra. La pietra evoca la pesantezza della materia di fronte alla rete che utilizzi come assenza?
La grande verità è che essendo affascinato dai ruderi, lungo la strada per Arte Sella ne ho intravisti diversi. Nonostante fossi in un posto estremamente naturale, il mio focus è finito sugli unici elementi antropici. Sono dunque giunto qui con l’idea di voler costruire un rudere. È stato il risultato di una sorta di studio, di analisi per cercare di immedesimarmi nel capire come poteva prendere forma quell’idea lì, sicuramente non aveva senso ricostruire un rudere nelle sue vere sembianze utilizzando la pietra, ma era importante cominciare a portare la figura, il personaggio rudere, all’interno del mio immaginario. Il mio immaginario è fatto di un mondo ideale, virtuale di cornici, di linguaggi, e io lo racconto attraverso l’architettura classica e attraverso questi elementi mi relaziono anche con il paesaggio. In questo caso l’idea era di partire da questa base razionale e mentale del linguaggio classico e poi definire un’architettura ideale attraverso la materia. In realtà in questo lavoro la rete non è più “materia assente”, ma è semmai il contenitore razionale che definisce la forma materiale dell’architettura, nel momento in cui va a perdere la sua tensione quei sassi perderebbero forma. Simbiosi gioca un po’ su tale aspetto, riportare a questo mondo onirico la figura del rudere.
Quando il tuo lavoro ha iniziato a tendere verso l’architettura?
In realtà io ho sempre utilizzato la figura umana nel mio lavoro oltre che come soggetto soprattutto come chiave per parlare dello spazio. La trasparenza nasce da questa volontà: voler parlare del paesaggio. Come un artista passa dal figurativo all’astratto, il mio passaggio all’astratto è coinciso con una svolta verso l’architettura. A un certo punto ho avvertito la necessità di voler raccontare lo spazio attraverso l’architettura, dal mio punto di vista manifestazione dell’uomo che si fa spazio.
E questa attenzione allo spazio, al contesto, viene un po’ dal mondo della Street Art a te molto vicino?
Sicuramente! La mia generazione artistica parte da quel tipo di esperienza. Tutta la mia generazione ha un focus forte sul luogo, interessata alla parte più paesaggistica come a quella più sociale. C’è un’interazione che fa dialogare fortemente l’opera d’arte con il contesto in cui l’opera si inserisce. E tutto ciò contrasta ovviamente con il white cube e tutta una serie di cose.
La relazione con lo spazio in Simbiosi è amplificata da questo effetto di stratificazione…
Nonostante l’attenzione all’architettura, io sono uno scultore di partenza. Anche la composizione di quest’opera, al di là della forma architettonica, gioca tanto su questi layer. Una nebbia di rete in cui la forma sparisce. Diciamo che prima il paesaggio entrava in maniera virtuale attraverso l’opera, nel senso che vedevi le nuvole definire il cielo, ma era puramente una poesia visiva. Adesso ho sentito più la necessità violenta di voler portare il paesaggio proprio all’interno dell’opera che stavo costruendo. Anche materialmente ho cercato di assorbire quello che c’era fuori.
In realtà anche le pietre appartengono al paesaggio…
Sì, perché scavando le fondamenta buona parte delle pietre sono state inserite all’interno dell’installazione. La materia del posto è stata utilizzata per dare una forma a quell’elemento. Poi ultimamente la rete non la considero più neanche un materiale, è diventata la mia matita.
Nel contesto di Arte Sella le opere vengono lasciate alla natura. Come ti relazioni con l’imprevisto?
Lo aspetto con gioia! Lavorare qui significava proprio riuscire a costruire la situazione giusta affinché gli elementi naturali possano in futuro andare a definire e scolpire l’opera. Sotto il basamento già si intravedono alcune piante che stanno crescendo. L’idea è guardare proprio a come la seconda fase di composizione dell’opera fatta dalla natura funzionerà. In futuro sono molto direzionato su questo tipo di fenomeno. Quando lavori con lo spazio e, in generale, con la rovina dal punto di vista compositivo e artistico, potresti lavorare per il 50% e per il resto lasciar che la natura si esprima in modo formale come già fa. Una cosa che mi affascina molto è che ci sono delle forme naturali che escono veramente così.
Come artista formale io porto avanti una ricerca estetica su come definire le forme, ma in realtà la natura fa la stessa identica cosa.
E la rovina quale ruolo gioca, in questo senso?
La rovina è proprio uno di quegli esempi di come le piante mangino l’architettura e vadano a insegnare all’essere umano la poetica dello spazio. L’essere umano definisce e poi la poetica gliela costruisce un po’ la natura. Tra l’altro sono affascinato dall’albero che cresce dentro una casa, perché è un’immagine che mi appartiene, relativa alla mia zona, in cui ci sono delle cascine che piano piano si decompongono e vedono crescere delle piante all’interno. C’è questa sorta di archetipo incredibile, l’albero che cresce nel letto di una casa, una delle immagini secondo me più poetiche. Difficilmente l’uomo sarebbe riuscito a inventare quella forma, è la natura che gliel’ha spiegata.
È la prima volta che presenti anche un libro d’arte?
Sì, è un lavoro dal carattere molto intimo, si tratta di un cofanetto, un’edizione limitata a trecento copie. Rappresenta un po’ l’archivio di quella che è stata la costruzione dell’opera, non mi interessava mettere le foto del lavoro finito, sono raccolti tanti momenti che rappresentano la vera parte di studio della mia ricerca, del mio percorso. Ci sono delle immagini che piano piano vanno a costruirsi. È da un anno e mezzo che sto lavorando con la fotografia attraverso una macchina fotografica russa che realizza delle panoramiche in modalità analogica ed è diventata un po’ l’occhio con cui studio le cose. Mi piaceva l’idea di creare un oggetto per condividere quei momenti. Ci sono anche dei fermo immagine che a opera finita sono andati completamente persi.
‒ Antonella Palladino
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