La storia dell’arte e il machismo. Intervista a Marianne Heier
Prima la performance a Brera, poi il re-enactement a Oslo durante la prima edizione della Biennale locale. Abbiamo incontrato Marianne Heier, performer che diverte e fa riflettere, raccontando la storia dell’arte e il suo punto di vista spiccatamente di genere.
Perché hai scelto di presentare la prima versione della performance a Brera?
Ho studiato a Brera negli Anni Novanta, e sento ancora un legame molto forte con quel luogo. Ho speso cinque dei miei anni più importanti percorrendo tutti i giorni quei corridoi, e i calchi di cui parlo nella performance sono come vecchi amici. Lì ho avuto le prime rivelazioni artistiche importanti, e in un certo senso credo di lavorare ancora nelle stesse tracce che ho iniziato a seguire mentre frequentavo i corsi lì. Apprezzo in modo particolare come Brera vive la sua relazione profonda e concreta con la storia in modo naturale e quotidiano. Ci torno ogni volta che passo da Milano, è un po’ come tornare a casa.
Quali sono le differenze fra le due performance, a Milano e a Oslo?
Ho presentato il lavoro in tre lingue diverse, ma la differenza primaria sta nello spostamento stesso, credo. Oslo e Milano sono due contesti molto diversi da tantissimi punti di vista, e gli edifici in cui ho presentato il lavoro rappresentano storie e significati differenti. Tutto questo si riflette nel lavoro. La presenza fortissima e reale delle sculture nei corridoi di Brera, che danno forma e ritmo alla performance, non è stato possibile ricrearla fisicamente a Oslo. Lì le ho invece presentate come foto proiettate sulle pareti dell’ex museo di arte contemporanea, dove ha avuto luogo il lavoro. Così a Oslo erano come degli echi di un altro luogo, o fantasmi. L’edificio a Oslo è stato sede della Banca di Norvegia, e poi del museo di arte contemporanea, per poi venire abbandonato qualche anno fa. È una vera casa di fantasmi, piena di tracce del suo passato, aperta al pubblico in via straordinaria per la performance. A Brera invece la performance ha avuto luogo in mezzo al passaggio continuo di studenti e turisti, che entravano a fare parte naturale del lavoro. Questo dava alla performance milanese un aspetto forse più attivista di quella norvegese, che per forza era più teatrale o ‘artificiale’.
Da cosa deriva la scelta di coinvolgere una seconda performer a Oslo?
Il ruolo di Marie Gurine Askeland nel lavoro è soprattutto quello di presenza affettiva, un corpo con cui dialogare per aprire la situazione e renderla più dinamica e tridimensionale. A Brera, invece, sono le sculture stesse ad avere questa funzione. Con Marie abbiamo sviluppato una forma giocata su complicità e fiducia, ma anche sulle nostre differenze fisiche. Abbiamo creato una serie di minitableau per rappresentare e rendere vive le storie dietro alle sculture e il loro senso politico ed emotivo.
I due brani cantati alla fine della performance sono diversi ma legati da una forte connotazione politica: perché questa scelta?
I due cori sono composti da giovani studenti d’arte. Il coro italiano canta Bella ciao, quello norvegese canta La voce della rivoluzione, scritta negli Anni Venti dal poeta Rudolf Nilsen. Portano con sé il riferimento alle lotte di liberazione del secolo scorso, ma allo stesso tempo creano una frizione col dramma politico dei nostri giorni. La canzone di Nilsen, cantata oggi dai giovani ragazzi, sembra riferirsi alle proteste di Greta Thunberg quasi più che alla rivoluzione comunista. Insomma rimane rilevante anche se i drammi intorno a noi sembrano spostarsi. Esattamente come le sculture, queste due canzoni vengono riproposte e reinterpretate nella performance. Cantate da queste giovani voci, è come se la loro energia si liberasse nuovamente, rendendole attuali. In fondo la storia è sempre una creazione del contemporaneo.
E dunque cosa propone il tuo lavoro?
Il mio lavoro propone una rilettura delle sculture della Gipsoteca di Brera. Sono tutte sculture di grande importanza nel canone artistico occidentale; archetipi o vocabolario visivo fondamentale a cui più o meno coscientemente ci riferiamo ancora oggi. La mia rilettura è costruita come una specie di collage di citazioni prese in prestito da fonti molto diverse tra loro. Ho cercato possibilità di narrative alternative o tracce di resistenza al potere nelle sculture. Cerco di liberarle dall’interpretazione spesso conservatrice o addirittura reazionaria a cui spesso viene sottoposto il classico. Per usare il termine di Agamben, è un tentativo di profanazione per restituire la loro potenzialità. Voglio rendere queste sculture rilevanti e vive nel nostro tempo, soprattutto per i giovani studenti che rappresentano il futuro. Le loro voci hanno quindi un senso metaforico in questo lavoro. Rappresentano la moltitudine della popolazione, direzionata verso un futuro ancora da definire, che appartiene a loro. Le canzoni che cantano sono tutte e due scritte nel secolo scorso, in momenti storici di grandi conflitti e incertezze, ma anche di grandi potenzialità. Esattamente come i miti a cui si riferiscono le sculture. Si tratta, in fondo, della condizione umana, un’esperienza continua e riconoscibile attraverso il tempo.
La tua performance unisce un profondo impegno sociale con una grande ironia: è un elemento necessario per “agganciare” i partecipanti?
Il testo è costruito come un collage di fonti, voci e posizioni diverse. La frizione tra queste prospettive nel testo crea momenti buffi, ma anche commoventi o profondamente tragici e angoscianti. Si tratta di interruzioni o spostamenti della posizione narrante, che spiazza e provoca l’attenzione del pubblico. Tutto questo serve per infrangere l’immagine che pensiamo già di conoscere di queste sculture per lasciare che ci appaiano nuovamente. Cerco di strappare il velo di interpretazione che le copre per ridare loro voce, per toglierle dall’archivio della storia. Il contrasto tra la concezione del classico come condizione di armonia ed equilibrio da un lato, e le storie di lotta, follia, gloria e passione che queste opere raccontano, dall’altro, è davvero paradossale. E siccome ci parlano della condizione umana, le loro storie contengono tutte le nostre emozioni. È per questo che sono sopravvissute attraverso il tempo; se le ascoltiamo le possiamo ancora capire, perché a un livello profondo condividiamo le loro esperienze. Sono buffe, serie, gloriose, tragiche ed eroiche, ancora piene di potenzialità. È questo che le rende così importanti.
‒ Marco Enrico Giacomelli
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