Venice Glass Week. Parola ai protagonisti
Per la terza edizione del festival veneziano dedicato all’arte vetraria, moltissimi i progetti e gli eventi. Il Bonhams Prize, introdotto quest’anno, va a Barbini Specchi con “Materia Eterea”, che vede tra i protagonisti anche Lucia Massari. Da Murano alla Giudecca, da Venezia a Mestre, il vetro torna ad affascinare. Senza dimenticare la tradizione, ma guardando sempre alla contemporaneità. Ne abbiamo parlato con Lucia Massari, Laura de Santillana e Lara Lütke.
Raccontaci come nascono questi pezzi della serie STRATA presentati insieme alla Galleria Swing a Palazzo Franchetti. Sono lavori in cui la tecnica della vetrofusione viene utilizzata in modo particolarmente innovativo…
Lucia Massari: La tecnica della vetrofusione di per sé non è innovativa. Nel mio lavoro di designer la mia è stata più che altro una ricerca su ciò che poteva ancora dare ed esprimere. Si tratta di tecniche anche un po’ antiche di cui viene fatto spesso un uso “sbagliato”, vengono prodotti dei pezzi a volte inguardabili. Io ho radici muranesi perché mio nonno aveva una fornace, per cui ho il vetro nel sangue e ho avuto modo di vedere cose terrificanti realizzate con questo procedimento come bomboniere, murrine ecc. Questa ricerca per me è stata un’esperienza fulminante, proprio perché io provengo dal mondo dell’illustrazione 2D e lavorare con il vetro piatto è stato come operare con i fogli di carta e quindi ritagliare forme, pezzi. Quando realizzavo i modellini, lavoravo partendo dai pezzi di carta. In più ho una grande passione per la materia, in special modo il vetro, che è una materia super viva, non come il legno o il marmo, perché non sai mai come prenderlo, cosa farà. L’idea di lasciarsi trasportare dal vetro è molto avvincente perché a un certo punto è come se tu lasciassi decidere la materia.
Per cui il tuo modo di procedere è molto simile alla tecnica del collage?
L. M.: Sì. Ho collaborato in questo caso con un artigiano ed è stata anche un’esperienza faticosa, perché non sempre il vetro reagisce come vorresti e l’artigiano, pur operando da molti anni con la vetrofusione, ha detto di non aver mai lavorato in questo modo. Abbiamo dovuto imparare a vicenda come realizzare i pezzi in base a questa idea.
Hai realizzato progetti con altri materiali come la pelle, il marmo, utilizzandone anche gli scarti secondo gli insegnamenti di Martino Gamper. Cosa trovi di diverso nel vetro?
L. M.: Il vetro, come dicevo è totalmente diverso, perché non sai come reagisce. Ho lavorato anche con il vetro soffiato, un vero e proprio lusso per me. Rispetto agli altri materiali più facilmente reperibili, il vetro richiede che ci si affidi a degli esperti, non si può controllare il processo del tutto. Per me il vetro vive nell’idea. A volte non mi piacciono delle pieghe che assume, non rispondono alla mia idea, ma ciò non toglie che altri possano averne una percezione diversa. Il vetro vive nell’immaginario delle persone. Ho lavorato con il vetro soffiato sull’esempio delle lanterne veneziane, soffiando il vetro all’interno di strutture di metallo. L’idea era che il vetro volesse uscire da queste gabbie. Il risultato era che si formavano bolle di dimensioni diverse e, in quell’occasione, ho imparato ad accettare l’aspetto “bastardo”, difficile, del vetro, che fondamentalmente va dove vuole andare.
Si è parlato molto del rapporto con le Avanguardie, dal Futurismo all’Astrattismo. Guardi molto all’arte come punto d’inizio o di arrivo?
L. M.: Moltissimo. Vengo comunque dall’illustrazione, per cui ammiro tantissimo i colori, ma anche tutta quanta l’arte, perché ho studiato arte. Quando guardo la materia, ciò che mi interessa di più è come riuscire a metterci dentro il colore. Per me si tratta di vetro, ma allo stesso tempo è colore allo stato solido. Anche in base al tipo di illuminazione assume colori diversi, per esempio sotto un neon si vela di azzurro. A me questi aspetti fanno impazzire, perché c’è proprio un effetto sorpresa. Si tratta di avere a che fare con colori solidi.
Guardando la serie STRATA, vengono in mente le parole di Ettore Sottsass, “l’emozione prima della funzione”. Al di là del forte impatto estetico dei tuoi pezzi, per l’uso sapiente dei colori e delle forme, quanto conta per te la funzione?
L. M.: Mi piace in realtà anche l’idea che chi compra questi pezzi li utilizzi come vuole. Sono piatti estetici, però si possono appendere, utilizzare come piatti o centrotavola. Quando uno progetta, lo fa spinto anche da un impulso, una forza creativa, poi sta al fruitore stabilirne l’uso. Per alcuni è un piatto, per altri è un pezzo d’arte. È la libertà che il designer conferisce a chi usufruisce dei suoi pezzi, che può scegliere di intenderli come arte o design.
Sei presente alla Venice Glass Week, inoltre, con la mostra Materia Eterea alla Fondazione Bevilacqua La Masa. Tra i partecipanti anche Bethan Laura Wood e Martino Gamper. Il vetro è sempre protagonista?
L. M.: È un’esperienza totalmente diversa. In realtà cerco di recuperare delle tradizioni, riflettendo anche sull’estetica legata ad antichi usi. Si tratta di specchi, l’evento è proposto da un’azienda veneziana che produce specchi dall’Ottocento, interessante è stata questa spinta sul design da parte loro. Ho utilizzato una tecnica molto diversa rispetto a STRATA, ricorrendo a fregi, fiori per eliminare la pomposità degli specchi tradizionali veneziani anche attraverso il colore, sempre presente nel mio lavoro.
Da veneziana pensi che la Venice Glass Week possa contribuire a riportare al centro dell’attenzione la grande produzione vetraria di Murano, richiamando designer e collezionisti internazionali?
L. M.: Quest’edizione è stata particolarmente interessante perché si è svolta in concomitanza con Nomad, una fiera nomade che si sposta annualmente e sicuramente richiama un certo tipo di pubblico. The Venice Glass Week è un festival giovane, ancora non rinomato, ma è necessario qui a Venezia per richiamare gente da tutto il mondo e, essendosi svolto contemporaneamente a Nomad, esclusivo format itinerante dedicato al design da collezione, ha richiamato di più il mondo del design.
Laura de Santillana, considerando la tua storia familiare, il tuo passato come designer, cosa significa per te partecipare con la mostra Soffi, insieme a Franco Mazzucchelli, a The Venice Glass Week?
Laura de Santillana: Sono felice che Venezia diventi un centro di ricerca e di studi per il vetro al di là dell’interesse per il design: penso al centro studi e all’archivio del vetro a San Giorgio, Le Stanze del Vetro. Ci vorrebbe a Murano qualche attività legata alla ricerca sul colore e naturalmente un luogo aperto alla sperimentazione. Un luogo come lo immagino io servirebbe anche ai giovani di oggi e di domani affinché possano apprendere ma anche conservare e tramandare conoscenze millenarie. Solo così si può portare avanti una valida ricerca contemporanea anche nel campo del vetro.
Nel corso della tua carriera ti sei confrontata con tante realtà e tradizioni diverse, la Boemia ad esempio. Quali differenze hai notato a livello di tecnica, colori ed estetica?
L. d. S.: In Boemia si fa molto vetro fuso in stampo, ma esiste una realtà veramente ampia di possibilità tecniche. Hanno le scuole tecniche che noi non abbiamo. I colori sono molto diversi e molto “dull”, come velati di grigio, meno brillanti.
In questa esperienza di confronto con un altro artista che dà vita alle sue opere attraverso l’aria, il “soffio”, pur utilizzando un materiale molto più vicino alla società dei consumi come la plastica, qual è l’elemento che accomuna e quale quello che differenzia maggiormente il tuo lavoro da Franco Mazzucchelli?L. d. S.: Io credo che il vetro sia il materiale del futuro, non i materiali plastici. Detto questo, il curatore Sabino Maria Frassà, che entrambi conosciamo da anni e con cui abbiamo fatto mostre personali e collettive, ha avuto l’intuizione del “soffio che dà forma alla materia” come forte comune denominatore. Poi, come emerge da questa mostra, l’accento comune è sulla modernità di un approccio volutamente scherzoso, ironico e caustico nella decorazione: come non riflettere sui miei Sgonfiati a confronto con i “quadri bifacciali” di Franco? L’ironia può dire molto di più di alcune denunce “urlate”. Il peso è veramente ciò che ci differenzia: le mie opere pesano molto di più!
Abbandonando il design, hai scelto di spingerti oltre la funzionalità, forse per travalicare e trascendere i limiti imposti dalla materia. Perché è stato necessario questo passaggio nella tua carriera?
L. d. S.: È stato un bisogno “filosofico” rendere un vuoto fine a se stesso. Lavoro soprattutto il vetro soffiato.
Attraverso la tua ricerca e la tua sperimentazione, sembri mettere in luce nuove possibilità comunicative di un materiale così antico come il vetro. Sono sculture che spesso nascono da una sottrazione d’aria, come i Glass Book e gli Sgonfiati o da un vuoto da colmare come i Fedeli. Quali possibilità espressive può ancora avere il vetro nella società contemporanea?
L. d. S.: Il vetro è eterno.
C’è un intento sociale nei tuoi lavori, come nelle opere di Mazzucchelli?
L. d. S.: No
A breve inaugurerà la tua mostra da Gaggenau DesignElementi Hub a Milano, sempre a cura di Sabino Maria Frassà, cosa presenterai?
L. d. S.: Una mostra che Sabino ha definito della maturità, perché torno a riflettere su alcuni progetti che hanno cambiato la mia ricerca artistica e il mio modo di vedere l’arte. Sono felice che Sabino abbia avuto il coraggio di mostrare opere per cui il pubblico ‒ non solo italiano ‒non mi riconosce: presenterò un lavoro fotografico e soprattutto un gruppo di lavori fatti al museo di Tacoma, negli Stati Uniti, anni fa. Ispirata dalla mitologia indiana, la mostra parlerà così dell’origine del pensiero, di chi siamo, di quell’“ab” che sta per origine e abbandono di ciò che eravamo per essere qualcosa di nuovo. Sarà una mostra coraggiosa e concettuale, perché parlo in fondo di uno dei miei grandi “temi”, l’assenza, il togliere per crescere, trovare e sperimentare sempre qualcosa di nuovo.
Lara Lütke, si può riscontrare nella serie Imperfections, che presenti a Palazzo Franchetti, un’influenza dell’estetica razionalista in linea con la tua formazione presso la Bauhaus University di Weimar. Lavorare sulle imperfezioni, come in questo caso, sembra distaccarsi dai tuoi progetti precedenti, da quell’approccio geometrico e razionale evidente nei tuoi lavori.
Lara Lütke: I miei lavori precedenti, Milano e Nuwe, sono entrambi progetti nei quali ho lavorato in modo specifico con la storia del Bauhaus, cercando un approccio più profondo rispetto a ridurla ai suoi famosi “triangolo”, “cerchio” e “quadrato”. Per questo si può notare anche un’influenza dell’architettura razionalista. Imperfections invece è una critica al perfezionismo nella produzione di massa e sollecita il consumatore a un confronto con la sua tolleranza agli errori. Allo stesso tempo voglio mostrare l’assurdità di come le industrie scartino oggetti perfettamente funzionanti a causa del loro aspetto.
È la prima volta che lavori il vetro, materiale tenuto in grande considerazione dal Bauhaus?
L. L.: No, in verità ho appreso la soffiatura del vetro in Israele, perché a Weimar, alla Bauhaus University, non abbiamo un dipartimento dedicato al vetro. Durante il mio anno all’estero, ho studiato il vetro in modo molto intensivo e soltanto con questo background sono stata in grado di realizzare tramite soffiatura la serie Imperfections.
Che cosa rappresenta per te, per la tua carriera anche futura, confrontarti con una tradizione artigiana così forte come quella di Murano?
L. L.: Considero un’opportunità straordinaria poter venire qui a Venezia, specialmente per avere l’occasione di andare a Murano e veder lavorare un maestro vetraio. L’arte di soffiare il vetro è per me un qualcosa di magico, che non avrei mai immaginato di trovare e non ho intenzione di rinunciarvi.
Nel tuo lavoro sembra ci sia sempre un punto di partenza, un riferimento importante come Otto Bartning oppure Wilhelm Wagenfelds, in questo caso come hai scelto di procedere?
L. L.: Con Milano e Nuwe ho cercato in modo specifico immagini e oggetti per trovare ispirazione. Con Imperfections è stato un processo molto diverso, perché il tema da cui sono partita girava sempre attorno a perfezione, errore e fallimento. Lavorare con gli errori è qualcosa di difficile da fare perché ti confronti sempre con il tuo perfezionismo e devi trovare il giusto equilibrio, la sottile linea tra perfezione e imperfezione. Nel futuro penso che guarderò più a progetti come Imperfections, partendo da un tema che mi appassioni e mi accompagni in un processo profondo.
Ci sono artisti, architetti, designer italiani che sono stati o possono essere delle suggestioni forti per il tuo lavoro?
L. L.: In generale sono più ispirata dagli artigiani o artisti concentrati sulla tecnica artigianale. Un artista italiano che mi affascina è il maestro del vetro Lino Tagliapietra.
‒ Antonella Palladino
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