Andare, traghettare, trasformare. Intervista a Pino Genovese
Appena conclusa una residenza a Colle di Tora, in provincia di Rieti, Pino Genovese approfondisce la sua poetica. Con un occhio di riguardo per la questione ambientale.
L’opera di Pino Genovese (Roma, 1953; vive ad Anzio), anche in tempi di definizioni fluide come quelli correnti, sfida i tentativi di classificazione, insediandosi in affascinanti spazi di confine compresi tra l’happening e la scultura, il teatro, il disegno. Nel corso del tempo Pino si è dedicato a costruire magnificenti, effimeri tumuli e capanne lungo litorali o al fondo di boschi, a segnare territori con totem e assemblaggi di materiali diversi, a traversare acque su fragili imbarcazioni impersonando esseri vari. Lo abbiamo incontrato in una luminosa giornata alla fine di settembre a Colle di Tora, in provincia di Rieti, al termine di una residenza d’artista in una villa sul lago del Turano, dove, una volta di più, ha ricercato passaggi nascosti nel paesaggio circostante.
Hai sempre operato nella natura, da dove proviene questa scelta?
Come per tutti, che lo si dichiari o meno, dalla mia storia personale. Sono cresciuto in campagna, sul litorale laziale, quando questo era ancora selvaggio, prima insomma della grande speculazione edilizia che l’ha distrutto dagli Anni Sessanta in avanti. Da bambino correvo per i campi lungo il mare, vivevo con grande intensità la vita all’aperto: questo è qualcosa che per forza condiziona la sensibilità di un essere in formazione, e che rimane in tutto quello che farà. Poi, sai, avere vent’anni negli Anni Settanta era qualcosa di potente: a pensarci adesso, il mio senso d’avventura per gli spazi aperti viene in una misura simile – o che almeno non so distinguere – dalla visione di El Topo di Alejandro Jodorowsky come dalla lettura dei fumetti con gli indiani di Tex Willer. Se aggiungi il teatro, probabilmente ci avviciniamo agli elementi principali del mio modo di essere artista; in questo senso, per me un’altra esperienza formativa fondamentale è stata quella che vissi con la Zattera di Babele, l’incredibile riunione di artisti e attori che Carlo Quartucci montò a Gennazzano, in provincia di Roma, nei primissimi Anni Ottanta.
Raccontaci qualcosa di più.
In un paesino sconosciuto trovavi artisti come Jannis Kounellis o Giulio Paolini, critici come Germano Celant e Rudi Fuchs che lavoravano tutti insieme per inventare una sorta di nuovo mondo. Io mi sono dedicato sempre più a esplorare mondi nuovi perché possibilmente arcaici, ancora alla nostra portata nel paesaggio. Più di recente, ho ritrovato questa energia in performer e gente di teatro molto più giovane di me: per questo ora collaboro spesso, ad esempio, con collettivi di giovani artisti come il Cercle e l’Uneveneye.
Come descriveresti le tue azioni nel paesaggio?
Vedi, il fatto è che ho iniziato per così dire interpretando paesaggi, poi ho cercato di andare oltre. Prendi il personaggio dello sciamano, a cui ho fatto ricorso in molte mie azioni sceniche: si tratta di un tramite molto utile, a partire dalla sua stessa immagine nell’immaginario comune, per stabilire e mostrare un contatto con forze altre, ma sempre più mi sto muovendo verso l’adozione, più ancora che l’interpretazione, di altri personaggi. A Colle di Tora, ad esempio, dove ho abitato con grande piacere per una residenza d’artista alla ‘Casa del Direttore’ nel settembre di quest’anno, sono divenuto un uomo, un traghettatore che abita il lago e si muove sullo specchio dell’acqua in un equilibrio instabile su una zattera fatta di tronchi e bambù: un essere di un altro tempo, con un’interiorità diversa da quella di uno sciamano, che il costume e il mezzo per muoversi hanno permesso di far entrare in rapporto con il luogo. Perché, vedi, c’è un travestimento, una maschera, con cui un personaggio s’impone all’interprete al punto che il secondo non c’è più: ma io lì c’ero, dentro un’esperienza che sicuramente prendeva spunto da un fare esteriore – attoriale, se vogliamo, in quel caso –, ma poi diventava altro.
Come consideri le esperienze che di solito vengono definite di arte ambientale?
Personalmente vivo il rapporto con l’ambiente non in una maniera militante, ma cercando di trovare una connessione spirituale con i luoghi in cui mi trovo: per questo motivo, credo, un artista che mi piace molto è Richard Long, in particolare quando si muove nello spazio con le sue lunghe camminate. Lo apprezzo quando lavora sull’attraversamento, senza invadere lo spazio, perché è quello che cerco di fare anch’io. Per allargare il discorso, trovo importante il risveglio di una coscienza ambientalista che sta avvenendo, ma penso che in questo momento si debba comunque stare attenti a evitare un’aggressività che rischia di compromettere proprio quella ri-connessione che il mondo sta cercando, e di cui ha tanto bisogno. Per restringere lo stesso discorso, credo dipenda da questo il fatto che nelle mie opere il materiale sia sempre di recupero.
Come scegli i materiali che impieghi?
Mi lascio guidare dalle occasioni, poi col tempo la scelta diventa una forma in sé di conoscenza. La pietra, per esempio, mi piace molto, ma va progettata, invece il rapporto con il legno è profondamente immediato: prendi un relitto che arriva dal mare, oppure le cortecce degli alberi, sono materiali che ti raccontano storie senza che tu nemmeno sollevi una domanda. Direi che più passa il tempo, meno uso cose: in realtà, io non voglio più usare niente.
‒ Luca Arnaudo
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