Pittura lingua viva. Parola ad Alessandro Giannì
Viva, morta o X? 60esimo appuntamento con la rubrica dedicata alla pittura contemporanea in tutte le sue declinazioni e sfaccettature attraverso le voci di alcuni dei più interessanti artisti italiani: dalla pittura “espansa” alla pittura pittura, dalle contaminazioni e slittamenti disciplinari al dialogo con il fumetto e l’illustrazione fino alla rilettura e stravolgimento di tecniche e iconografie della tradizione.
Alessandro Giannì è nato a Roma nel 1989. Dal 2013 ha esposto in varie istituzioni in Italia e all’estero, tra cui: Museo MAXXI, La Casa delle Armi e Istituto Svizzero, Roma; Istituto Svizzero, Milano, Museo D’Inverno, Siena, Kühlhaus Berlin, Berlino; American University Katzen Arts Center, Washington DC; Villa Firenze, residenza dell’Ambasciatore Italiano negli Stati Uniti, Washington DC, Museo MACRO, Roma. Ha preso parte al Movimento ÑEWPRESSIONISM fondato dall’artista greco Miltos Manetas. È stato art director del progetto Ovalis, di Enrico Ghezzi ed Emiliano Montanari; in quest’occasione alcuni dei suoi lavori sono stati esposti all’interno della 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’apocalisse dell’ora, Albumarte, Roma, è la sua personale più recente.
Come ti sei avvicinato alla pittura?
Sono cresciuto con mio padre che dipingeva in casa, ma mi sentivo distante dall’arte. Da adolescente, dopo diverse bocciature, lasciai gli studi di ragioneria per dedicarmi a tempo pieno a due cose fondamentali: il pallone e la Playstation. Un giorno, però, alcuni amici stavano andando con la loro scuola a vedere una mostra sulla Pop Art e per qualche strano motivo ci andai anch’io. Così vidi dal vivo dei grandi quadri di Mario Schifano. Subito mi colpirono perché erano molto maleducati e guardandoli realizzai che per essere un artista non era necessario essere “bravi” a fare qualcosa, ma piuttosto avere una visione. Poi andai a lavorare in un banco ambulante per diversi anni e una volta, frugando tra i libri di un’altra bancarella, mi ritrovai in mano proprio una biografia di Schifano. Così scoprii che neanche lui aveva terminato gli studi e che, facendo quei quadri così svogliati (e geniali), era diventato molto ricco ed era stato insieme a donne bellissime; a quel punto non potevo fare a meno di immaginare di diventare un pittore anch’io.
Quali sono i maestri e gli artisti cui guardi?
Tutti quelli che mi ricordano di essere vivo.
Perché la scelta di un linguaggio prevalentemente figurativo?
Più o meno per lo stesso motivo per cui Eric Clapton suona la chitarra e non il flauto traverso.
Astrazione e figurazione: dove finisce una e inizia l’altra?
Oggi non penso sia poi così importante…
Chi sono le figure antropomorfe che popolano i tuoi quadri?
Credo che provengano dal lato B della “realtà”.
Come la mediazione di un’immagine attraverso uno schermo incide sulla sua fruizione e percezione? Ritieni possa avere ripercussioni positive sulla ricezione di un’opera d’arte?
Non ci sono ripercussioni né positive né negative perché non si ha a che fare con l’opera ma con una sua fotografia che appare in un vetro luminoso. Se vedo un capolavoro di El Greco dal vivo mi sento schiacciato dall’esperienza, mentre dallo schermo è diverso perché è come una droga per lo sguardo che si inietta direttamente nell’occhio. C’è l’estetica, senza però l’esperienza.
Il disegno ha un ruolo nella tua pratica e in relazione alle tue opere?
Non ho un rapporto morboso con il disegno perché per me la pittura è qualcosa che viene esclusivamente dal pensiero e dallo spirito e non da una pratica manuale. Quando disegno non lo faccio quasi mai con un senso progettuale.
E il digitale come si relaziona con l’“analogico” della pittura?
Mi interessa l’idea che il mio lavoro provenga da qualcos’altro, ma che poi attraverso il mio filtro possa assumere diversi scenari simultanei e chiavi di lettura. Spesso raccolgo dei frammenti dalla rete che poi rielaboro attraverso il segno e lo sguardo, così prendono forma sia dei lavori di natura tradizionale, sia di natura tecnologica.
Hai messo in dialogo tela e proiezione. Con quali risultati?
Era una proiezione muta, senza immagini. La tela era illuminata dalla luce della proiezione e le persone avevano difficoltà a capire se davanti a loro ci fosse un dipinto o la proiezione di un dipinto. Oggi l’immagine si sovrappone alle cose o le sostituisce, i difetti sono sempre meno tollerati e tutto è estremamente idealizzato.
Nella costruzione delle tue composizioni, nella definizione dei tuoi immaginari e delle tue fonti iconografiche che posto ha invece la storia dell’arte? Penso, per esempio, a un’opera in cui riprendi, scomponi e moltiplichi Gli ambasciatori di Holbein.
L’opera di Holbein è qualcosa di straordinario: è la sintesi perfetta dell’eternità. A volte incontro delle opere di cui vorrei impossessarmi, non in un senso materialistico ma spirituale; così prendo in prestito dei soggetti e li ridipingo in modo maldestro ricollocandoli in altri contesti. Tutto questo avviene in maniera sincronica e istintiva.
Come scegli i soggetti delle tue opere?
Nel mio lavoro cerco di scegliere il meno possibile: aspetto che le cose si palesino e che tutto avvenga naturalmente.
Ti confronti anche con altri linguaggi e mezzi, penso, ad esempio, alla scultura e alla ceramica. Quando lo fai pensi a una specificità del mezzo? Oppure rientra in una idea di pittura “espansa”?
Tutti i linguaggi dell’arte visiva sono pittura espansa perché il dipinto è indubbiamente all’origine dell’arte contemporanea.
Come il tuo lavoro si è trasformato nel tempo?
Un pittore dipinge sempre lo stesso quadro.
Cosa rappresenta il tempo per te? E la simultaneità, che ricorre nei titoli delle tue opere?
Fin da piccolo ho sempre avuto la sensazione che tutto fosse già accaduto infinite volte. Penso che nell’istante in cui nasci stai anche morendo da qualche altra parte.
Raccontaci di un’opera articolata come L’apocalisse dell’ora, che ha dato anche il titolo a una tua personale.
È l’infinita ripetizione dell’attimo, che non è più un frammento infinitesimale che contribuisce a definire lo scorrere del tempo, ma un universo a parte, con delle regole differenti e alcune vibrazioni non visibili all’occhio umano.
Quanto conta la tecnica?
Penso che per fare qualcosa di importante sia fondamentale essere incapaci quanto più possibile. Io cerco di fare del mio peggio ma non ci si può sforzare più di tanto perché l’incapacità è un talento naturale…
Che ruolo ha il colore?
È benzina che potrebbe andare a fuoco.
Ci sono formati o tecniche che prediligi?
No.
La tua è una pittura lenta o veloce?
Dipende dal ritmo della testa.
Lavori in studio?
Non sono dipendente dall’azione fisica del dipingere: la mia unica ossessione è di sputare fuori qualcosa che preme per uscire per poi osservarla dall’esterno, tentando di auto-stupirmi per due o tre secondi, prima di tornare a sguazzare nell’insoddisfazione. Lo studio è quindi un secchio dove strizzo quello che ho assorbito e questo per me è un momento faticoso perché devo affrontare tutte le spigolosità del fare.
Come nascono i titoli delle tue opere? Penso a Multiple irrealtà, Il guscio è talvolta il cervello o, ancora, Indistinte e nebbiose sono le immagini, nebbiose e indistinte sono le cose…
Spesso nascono da soli quando faccio tutt’altro, ad esempio mentre sto guidando, o mentre preparo una frittata. È una specie di illuminazione improvvisa che a volte ci mette mesi o anni per arrivare, anche quando l’opera ha già lasciato lo studio. È il momento in cui inizio a capire qualcosa di più profondo riguardo a quello che ho dipinto.
Come definiresti la tua pittura?
Un flusso.
Cosa significa fare pittura oggi?
Essere assimilato da un agglomerato di cose con cui non hai nulla a che fare.
E cosa pensi della scena della pittura italiana contemporanea?
Non mi preoccuperei troppo della scena ma più che altro del film.
‒ Damiano Gullì
https://www.alessandrogianni.net/
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