Matera e il Paese della Cuccagna. Intervista a Navine G. Khan-Dossos e James Bridle
Apre a Matera la mostra “The Land of Cockaigne/ Il Paese della Cuccagna”, quarto appuntamento di I-DEA, un progetto di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 sul tema dell'archivio. Curata da due artisti, Navine G. Khan-Dossos e James Bridle, l'esposizione mette insieme in maniera evocativa oggetti provenienti dal patrimonio culturale locale. Abbiamo intervistato i curatori per farci raccontare qualcosa di più.
Ci potete raccontare la genesi del progetto? Come è nata l’idea della mostra?
Siamo arrivati a Matera per la prima volta nel marzo del 2019, quindi siamo visitatori, oltre che ospiti, di questo territorio. Non conoscevamo nulla di tutte le tradizioni e le storie che abbiamo incontrato qui. Il progetto ha preso forma attraverso gli incontri con le persone di Matera e della regione, tra cui i pastori della transumanza e gli officianti dei riti che si svolgono del Parco Nazionale del Pollino, l’etnomusicologo Nicola Scaldaferri, uno specialista in strumenti locali e tradizioni musicali degli Arbëreshë, e gli scienziati del Centro Spaziale di Matera, che fanno rimbalzare dei raggi laser potentissimi sulla luna e controllano le perdite di petrolio dallo spazio. Siamo stati molto ispirati dalla coesistenza di questi mondi così vivaci e radicalmente differenti, così in contrasto con la reputazione storica della Basilicata come luogo povero e arretrato. Volevamo celebrare questa mescolanza di tradizioni e di saperi.
Che tipo di oggetti avete scelto e come sono stati allestiti nello spazio?
È stato difficile mettere insieme tutte le cose che volevamo in mostra, soprattutto perché dovevamo anche soddisfare le richieste (comprensibili e importanti) provenienti dagli archivi in merito alla gestione e alla conservazione delle loro proprietà. Ma questa difficoltà, unita alla nostra condizione di stranieri, ha contribuito alla nascita di molti elementi fantastici. Abbiamo dovuto trovare nuovi modi per riprodurre e rappresentare archivi esistenti, attraverso foto-montaggi e documentazione di supporto, e abbiamo posto una forte enfasi sulle collezioni personali, private, includendo anche “archivi viventi” attraverso la partecipazione sia di individui che di interi paesi, la cui esperienza e conoscenza non rientra in nessun archivio ufficiale.
Ne avete anche costruito qualcuno?
Alcune cose, come gli oggetti di scena di film girati a Matera, sono state riadattate (una pietra tombale usata nel remake del 2016 di Ben-Hur, appesa al soffitto, si è trasformata nella luna), e abbiamo lavorato con allevatori e artigiani locali per realizzare registrazioni inedite sul campo e nuovi artefatti che diventano parte di tradizioni esistenti e le celebrano. Un ottimo esempio è la fontana scultorea che si trova al centro della mostra: ha la forma di un tradizionale cucù materano, un fischietto di argilla a forma di gallina, ed è stata creata da Francesco Mitarotonda, la cui famiglia produce cucù per occasioni speciali da molte generazioni. Per la mostra, Francesco ha messo a punto un nuovo design per il cucù, che ha un piatto satellitare sulla schiena.
Il progetto si propone di connettere il passato con il presente attraverso un uso attivo della memoria. Qual è il ruolo della tecnologia in questo contesto?
Esattamente. Gli archivi sono spesso visti come depositi inerti di informazioni, ma quello di cui ci siamo resi conto (e non siamo sicuramente i primi a farlo notare!) è che questi archivi sono in continuo movimento, sia che si tratti di certificati di nascita o di matrimonio vecchi di un secolo che vengono utilizzati per validare le richieste di cittadinanza di oggi, oppure di hard disk e nastri che circolano tra istituti di ricerca e sedi di telescopi, portando con sé frammenti di un buco nero e dati geodetici. Questa attività è rappresentata nella mostra sotto forma di respiro: il respiro che anima le cornamuse e i cucù, che spazza via la polvere dai vecchi registri e che richiama il bestiame sulle montagne. La nostra è una definizione estesa di tecnologia: mettiamo i documenti cartacei accanto ai floppy disk, alle canzoni e alle storie, intesi come depositi di conoscenza che vengono continuamente aggiornati, che cambiano sempre, che vengono rianimati nel presente per dare vita a nuovi significati e nuove storie.
Siete entrambi artisti. In che modo questo ha influenzato il vostro approccio curatoriale?
Una delle nostre collezioni preferite in mostra è quella delle sculture di Gianfranco Lionetti, un artista e un esperto autodidatta di storia sociale e naturale della Basilicata. Per molti anni Gianfranco ha scolpito usando materiali trovati e adottando le tecniche degli artisti neolitici. Si confronta con la storia mettendosi nei panni dell’artigiano, di colui che fa, che costruisce, adottando gli stessi strumenti, lo stesso punto di vista e lo stesso ambiente di coloro che ci hanno preceduto. Come artisti, è questo genere di coinvolgimento diretto con i materiali che cerchiamo quando dobbiamo scegliere i materiali per la mostra.
Questa mostra vi ha offerto l’occasione di visitare per la prima volta Matera. Com’è stato l’impatto con la città? Che sensazioni vi ha dato?
Ci è piaciuto molto stare a Matera, anche se abbiamo trascorso la maggior parte del tempo nella Cava Paradiso, sede della mostra! Ma abbiamo cercato di esplorare la regione il più possibile, dalle rovine della Magna Grecia a Metaponto, ai calanchi, ai paesi e ai boschi intorno a Viggianello. Vivendo in Grecia, per noi è particolarmente importante costruire relazioni nel Mediterraneo, con luoghi apparentemente periferici che ci sembra invece siano cruciali per individuare nuove posizioni critiche e territori estetici in un momento in cui il “centro” sta collassando.
L’esperienza di Matera, con la modernizzazione accelerata degli Anni Cinquanta, la pressione turistica attuale e la difficoltà di integrare tradizioni che vengono stigmatizzate con uno stile di vita più sostenibile, contiene lezioni che possono essere utili a città e comunità di tutto il mondo. Speriamo che ai materani piaccia la mostra almeno quanto a noi è piaciuto realizzarla, e speriamo di poter tornare qui molto presto.
‒ Valentina Tanni
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