Alla ricerca del nuovo. Pietro Fortuna a Matera
Autore dell’intervento nella cornice del Parco della Murgia Materana, Pietro Fortuna racconta il suo approccio al “nuovo”. Ed è protagonista, insieme a Giorgio Verzotti, dell’incontro in calendario oggi, sabato 23 novembre, al chiostro di San Francesco a Irsina.
Nell’anno di Matera Capitale Europea della Cultura il Parco della Murgia Materana ha accolto presso il “Belvedere Piccolo” l’opera NOVITAS di Pietro Fortuna (Padova, 1950). L’installazione, che è articolata in cinque elementi di ferro, strutturati ad arco grazie alla piegatura delle lastre che li compongono e che fanno da supporto ad altrettanti oggetti realizzati dall’artista, si inserisce con un analogo movimento nello sguardo panoramico che racchiude il paesaggio. Uno sguardo che non divide, che non sceglie, che non mira, ma che si lascia portare nella corrente della vita. Ne abbiamo parlato con l’artista.
Come si inserisce l’opera nel contesto storico-paesaggistico del Parco della Murgia di Matera?
Il sito che abbiamo scelto intreccia memorie ed eventi molto diversi tra loro: una natura che non smette di raccontarsi, il set del film di Pasolini che a sua volta racconta la passione di Cristo attraverso la narrazione di Matteo testimone di una memoria insopprimibile. E oggi il composto allinearsi dei miei oggetti, forse i resti di quelle croci?, che hanno perso frontalità e fondo, sottraendosi così a ogni possibile narrazione. Sono costruzioni fatte di doppifondi, pieghe ma nessuna finalizzazione tecnica, ciò che si mostra sembra bastare al suo apparire vincendo la riserva che lo sguardo è sempre in credito rispetto all’originale, al vero.
Come nasce NOVITAS?
Avevo già in mente questo titolo ma non l’opera, e devo dire che l’offerta di allestire un mio lavoro sull’orlo di un abisso mi ha facilitato il compito. Infatti, era un po’ che non pensavo alla prudenza o alla temerarietà, e questo luogo sembra proprio importi una scelta. D’altronde quando la bellezza affiora dall’estremo non sempre chiede di essere contemplata, a volte ci incarica di agire, di fare qualcosa. E se si presenta un artista, ecco che la sua prova consisterà, appunto, nell’essere temerario o prudente.
Questi sentimenti alterni hanno sempre messo alla prova artisti, filosofi…
Sentimenti alterni, com’è accaduto a Blumenberg e prima al suo mentore Lucrezio, a Nietzsche quando ci ammonisce a non aver nostalgia della terra e a Friedrich che per salvare l’intimità del suo sguardo si lascia prendere alle spalle dall’occhio indiscreto di chi è fuori dal quadro. In altre parole, quando siamo costretti a fare i conti con l’imprevedibile, non solo dobbiamo schierarci da una parte o dall’altra, ma su questa esperienza costruiamo la nostra idea del nuovo.
A questo punto NOVITAS quale relazione intrattiene con la prudenza e la temerarietà? E in che senso il nuovo esprime la prudenza o la temerarietà del pensiero dell’uomo?
Innanzitutto distinguiamo la “novitas” che ha un illustre passato, non solo nel pensiero teologico, ma anche nella letteratura se pensiamo a Dante, dall’idea del nuovo che si è venuta configurando nel tempo fino alla modernità. Ancora oggi il senso comune considera il nuovo come un’offerta che il futuro riserva alle nostre aspirazioni o un risarcimento a chi crede di aver fallito, dosando la prudenza e la temerarietà, la sottomissione all’idea della nostra finitezza o alla volontà di superarla. Questa è la prospettiva del mondo, ma dove c’è mondo non c’è vita.
La vita è un tema costante nel tuo lavoro, che confligge con i paradigmi del pensiero umanistico.
È la vita, infatti, a essere in ogni istante nuova, non sa cosa farsene del nostro futuro, non è né temeraria né prudente. E mentre il mondo interpreta il divenire della vita come l’incerto, l’imprevedibile, dunque un impedimento a raggiungere degli esiti certi e duraturi, la vita, che è indifferente alle ragioni del mondo, rimane all’ascolto di se stessa e così tutto ciò che vive, ogni vivente. La vita è soddisfatta di sé.
Ecco che ritorna la prudenza in contrapposizione con la vita che non ha nessun fine da raggiungere semplicemente perché non può andare oltre se stessa.
Sì la vita è soddisfatta di sé, del suo essere in ogni istante nuova. Mentre noi ci siamo presi cura del nuovo o lo abbiamo addirittura temuto. In ogni parola che pronunciamo, come dice Derrida, si nasconde una promessa, e questa promessa non può che implicare il nuovo. Ogni parola annuncia il nuovo, è l’orizzonte dei nostri desideri, delle nostre aspettative, insomma la ricerca del nuovo è un’ipoteca inemendabile che pesa sulle nostre esistenze. Una pena antica che ci siamo inflitti cercando nel mondo ciò che non è del mondo, ma appartiene alla vita… A cosa serve, dunque, cercare ciò che già c’è?
‒ Lori Adragna
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