Performance e femminismo. Intervista a Valie Export
A Firenze per partecipare all’evento We stand togetHER, organizzato dal Museo Novecento in occasione del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, Valie Export (Linz, 1940) racconta la sua esperienza di artista femminista e traccia un bilancio di quanto è stato fatto e quanto ancora resta da fare. Inoltre, alcune considerazioni sul suo […]
A Firenze per partecipare all’evento We stand togetHER, organizzato dal Museo Novecento in occasione del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, Valie Export (Linz, 1940) racconta la sua esperienza di artista femminista e traccia un bilancio di quanto è stato fatto e quanto ancora resta da fare. Inoltre, alcune considerazioni sul suo percorso artistico, in occasione della mostra The Venice Biennale Works, in corso a Londra da Ropac.
Per lei, formatasi a ridosso del Sessantotto, il femminismo rappresentava un’urgenza del momento, fortemente partecipata dalla massa. Pensa che oggi la lotta si sia affievolita?
Nel 1968 il femminismo si affermò negli Stati Uniti e giunse in Europa all’interno delle contestazioni studentesche, dalle quali si separò poco dopo, avendo acquistato anche qui una sua propria autonomia. La lotta fu serrata all’epoca di qua e di là dell’Atlantico, così come anche oggi resta serrata. Il fatto è che lo Stato, la società hanno inglobato il femminismo in qualcosa di “totalizzante”, addossando alla donna molteplici responsabilità: moglie, madre, lavoratrice, imprenditrice, artista, politica… Dovendo conciliare la vita privata e familiare con le esigenze del mondo del lavoro, fra l’altro sempre più competitivo, è ovvio che gli spazi per lottare si riducono. Non si sono però ridotte la tenacia né la convinzione. Bisogna però notare che mentre sono aumentati i compiti per le donne, i diritti sono pressappoco rimasti i medesimi di prima del Sessantotto.
Quale contributo concreto ha portato l’arte nella consapevolezza femminile?
Parlando del mio lavoro, posso dire che ho cercato di riflettere sulla dialettica visiva del corpo femminile, come veniva presentato allo sguardo della società, in confronto all’uomo. Un corpo che ricopriva un ruolo marginale, e nelle mie fotografie attualmente esposte a Londra da Ropac, e realizzate per la Biennale di Venezia del 1980, ho volutamente sottolineato questo ruolo secondario, in modo da far scattare una riflessione nel pubblico sull’equità o meno della situazione. L’arte può quindi essere un potente mezzo per stimolare il giudizio critico, e, pur non avendo il potere di cambiare le cose in maniera diretta, certamente contribuisce all’avvento del cambiamento.
Nonostante mezzo secolo di lotta per la parità di genere, la violenza sulle donne è ancora, purtroppo, una vergognosa emergenza sociale. Secondo lei, cosa non ha funzionato a livello politico, sociale, educativo?
La lotta in quanto tale delle femministe non è mai stata accettata, anzi, il sistema l’ha violentemente combattuta, anche in maniera sottile e coperta. C’è stato un quasi completo disinteresse a livello di Stato sociale, ad esempio in Austria non esistono sostegni per le madri single. In generale, direi che, se guardiamo alla sostanza, è mancata un risposta politica organica, capace di accogliere le tante istanze sollevate a suo tempo dalle donne.
Chi sono oggi gli “Avversari Invisibili”?
A quelli che venivano denunciati negli Anni Sessanta e Settanta, direi se ne siano aggiunti molti altri. Uno Stato sociale poco sensibile, come dicevo prima, è fra questi.
Cosa pensa del movimento #metoo? Ha avuto una vera influenza sul mondo dell’arte, e più in generale sulla dinamica dei rapporti professionali uomo/donna?
Il movimento ha segnato una tappa importante nella consapevolezza delle donne, che sempre più hanno capito l’importanza di far valere i propri diritti, pur con tutte le difficoltà del caso. Ciò dimostra che la lotta, come detto in apertura, non si è affievolita. Dove resta ancora molto da fare è sul piano legale: voglio dire che, fino a pochi anni fa, questi casi di denunce venivano dibattuti e giudicati da avvocati e giudici di sesso maschile, mentre soltanto da poco si cominciano a vedere avvocatesse e giudici donne. Un cambiamento di punto di vista che, senza essere schierato, è comunque importante. E un altro effetto del movimento e delle denunce è che adesso un uomo che provasse certi approcci sa cosa rischia. Ma questo vale per un determinato ambiente, come il cinema, l’arte, la musica. Credo però che in normali contesti di lavoro, magari anche in aree rurali o in piccole cittadine, le garanzie non siano le medesime: penso che una commessa che volesse denunciare molestie in un piccolo esercizio commerciale della cittadina X, ci penserebbe due volte prima di agire, perché ancora rischierebbe il posto di lavoro.
Secondo lei, nell’arte, il corpo femminile ha assunto nuovi significati? Oppure ha ampliato quelli già indagati in passato?
Certamente i tempi sono cambiati, e cambiando hanno portato anche nuove letture e punti di vista sul corpo femminile. Non fosse accaduto, noi artisti saremmo stati i primi a preoccuparci. È indubbio che la donna sia molto più consapevole della sua posizione nella società di quanto lo fosse prima del ’68.
Com’è cambiato l’approccio del pubblico verso la performance, rispetto agli Anni Sessanta, quando lei ha esordito sulla scena artistica?
Riferendomi alle mie performance negli Anni Settanta, ricordo che erano una sorta di sfida verso il pubblico, e la risposta era sempre molto categorica: o riscuotevo consenso, oppure rifiuto totale. Non c’erano zone grigie. E parlando dell’oggi, non mi sembra si siano verificati quei cambiamenti radicali che ci aspettavamo: ci sono ancora diffidenza e distanza.
Una domanda forse provocatoria: in riferimento alle sue performance degli Anni Sessanta e Settanta, ad esempio Genital Panic, che effettivamente colpirono l’opinione pubblica, c’è oggi un modo per essere altrettanto provocatori? Oppure, più che con la forma, si può essere provocatori nei concetti sviluppati?
Posso dire che, soprattutto in quegli anni, la provocazione era necessaria per stimolare un risposta da parte del pubblico, per stabilire un contatto di qualsiasi tipo. Ma era necessaria perché, quando si è contrari a qualcosa, come lo ero io all’epoca e come lo erano tanti miei colleghi, la provocazione è forse la via più immediata ed efficace per gridare il proprio dissenso. Ma la provocazione non deve necessariamente corrispondere allo shock: voglio dire, nel mio lavoro ho “provocato” utilizzando il video, la fotografia, la performance, linguaggi artistici che all’epoca non erano ancor riconosciuti come tali. E sempre cercando di affiancare contenuti alla forma. La dinamica più o meno è ancora la stessa.
Quali orizzonti ha potuto aprire il digitale, nella pratica della performance?
L’impatto è stato sicuramente forte, e si sono aperte strade insospettabili sino a pochi anni fa. Penso ad esempio alle performance che nascono su WhatsApp e che uniscono persone fra loro molto distanti, addirittura persone che nemmeno si conoscono, ognuna delle quali può aggiungere o togliere qualcosa, interagendo all’istante e in qualsiasi momento. In questo modo la performance può “invadere” qualsiasi spazio, da quello familiare a quello scolastico, ma anche un treno, un autobus…
Quali sono i suoi prossimi progetti? Può anticiparci qualcosa?
Sto lavorando a un’installazione che utilizzerà le canne d’organo, ma è un progetto ancora alla fase di studio, che avrà bisogno di tempo per uno sviluppo compiuto.
‒ Niccolò Lucarelli
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