Piergiorgio Castellani, Keith Haring e il murale Tuttomondo. Storia di una amicizia
Abbiamo scovato, e intervistato, l’allora giovanissimo studente toscano che convinse Keith Haring a realizzare il celebre murale a Pisa. Una storia di amicizia, oltre le logiche del mercato.
Una litania accompagnata da un suono ipnotico, il sankirtan invocato da un gruppo di hare krishna in una via di Manhattan, nel centro di New York, a bordo strada sul loro furgoncino. Una consuetudine in voga negli Anni Ottanta e che, nel 1987, catalizza l’attenzione di un giovane studente universitario di Pontedera, Piergiorgio Castellani, che respira per la prima volta il fascino della Grande Mela. Ha seguito suo padre in un viaggio di lavoro perché a 19 anni sente la sua vita oppressa dalla campagna pisana, vuole esplorare, assorbire il mondo e New York è la sua grande occasione, dai fumi che fuoriescono dai tombini a uno strambo concertino di origine indiana scovato casualmente passeggiando.
Piergiorgio non è il solo ad assistere quella esibizione, ci sono diverse persone tra cui un ragazzo magro, con occhiali tondi, un paio di jeans chiari e scarpe bianche, bianchissime. Keith Haring è lì di fianco, anche lui rapito dal mantra cantato. Seppur nella massima esposizione mediatica della sua carriera, non è così automatico riconoscerlo per un ragazzo che viene da una cittadina toscana di 30mila abitanti, ma Piergiorgio è appassionato di arte, di Pop Art, è abbonato alla rivista Interview di Andy Warhol, vede davanti a se un’icona e gli si avvicina con devozione: “Lo ‘aggredii’ subito, lo riempii di domande e lui mi ascoltava, avrebbe potuto salutarmi rapidamente, invece era a suo modo affascinato nel vedere un ragazzino italiano così preso” – racconta Piergiorgio Castellani che, oggi produttore vinicolo, a più di 30 anni di distanza ricorda ancora tutto nitidamente. “Allora lo provocai con tono scherzoso dicendogli che in Italia mancava una sua opera permanente, aveva lavorato a Milano per Fiorucci e poi a Roma, ma non c’era un lavoro davvero per tutti e di tutti e lui mi rispose: ‘domani vieni nel mio studio e ne parliamo’”.
UN INCONTRO FORTUITO
Tuttomondo, l’ultimo murale di Keith Haring, realizzato a Pisa nell’estate del 1989, esattamente 30 anni fa, nasce così. Da un fortuito incontro, o se volete da una provvidenziale coincidenza che l’artista, celebre per i suoi “radiant boy”, seppe cogliere introspettivamente: “Iniziò a parlarmi della sua arte ma anche della sua persona, io avvertivo questa sua necessità di liberarsi dalla pressione dell’establishment e dallo stesso mondo dell’arte, era un artista quotato al punto che ricordo un aneddoto: in una galleria di New York c’era un albero di Natale decorato con ritagli dei suoi personaggi fatti da lui stesso. Erano semplicemente di cartone ma venivano venduti per migliaia di dollari. Lui, però, era introverso, aveva altre esigenze”.
In Piergiorgio Keith vede una via di fuga, il punto quanto più estraneo da quella scena “imbellettata”. Stava perdendo tutti i suoi punti di riferimento: Andy Warhol era morto all’inizio del 1987, l’anno dopo perderà anche il suo grande amico Jean-Michel Basquiat, è rimasto solo e su di lui si concentra tutta la pressione del mercato. Poco più che trentenne, Keith è al centro della scena pop, conteso da grandi galleristi come Tony Shafrazi e Leo Castelli, prodotto di merchandising e di brand, con gli occhi della musica e della comunicazione addosso, ma lui, che era nato in Pennsylvania, in un contesto “protetto” e genuino, manteneva un sincero interesse per le cose semplici.
Ecco, esattamente in quel momento aveva deciso di usare il suo tempo facendo cose diverse da quelle imposte, un tempo ancora più prezioso e veloce per chi è malato di Aids: “Mi diceva di aspettare, che terminate alcune commissioni si sarebbe concentrato solo sulla nostra opera, era come se dipingesse per galleristi e collezionisti giusto per mantenere il suo nome in alto e per non deludere le aspettative, però poi le sue energie, il suo entusiasmo, tutto lui stesso lo voleva mettere su questo progetto che gli consentiva di fuggire da questa grande città che tanto gli aveva dato, ma tanto lo aveva assorbito e spremuto e prossima a girargli le spalle”.
Per tutto il 1988, Piergiorgio e Keith si sentono, si vedono spesso, il ragazzo lo raggiunge più volte nel suo studio o anche a Chicago, mentre è impegnato nella realizzazione di un grande lavoro. Tuttomondo sarebbe dovuto nascere a Firenze, ma la soluzione non li convinceva perché l’amministrazione comunale avrebbe concesso solo qualche facciata di palazzi periferici; loro invece volevano stare al centro delle persone, realizzare una performance live in grado di dialogare con il territorio e modellata su misura del territorio stesso, ricollegandosi con la tradizione artistica italiana. Keith, infatti, ha in mente di realizzare addirittura un affresco, è convinto di farcela, ma Piergiorgio lo stoppa sapendo che i tempi si sarebbero allungati per oltre la settimana di permesso. Si presenta così Pisa, l’allora sindaco Giacomino Granchi e l’assessore alla Pubblica Istruzione e alla Cultura, Lorenzo Bani, si attivano per rintracciare una parete che rispondesse alle esigenze di spazi senza porte e senza finestre e in una zona fruibile da quante più persone possibili. Con 180 metri quadrati, 10 in lunghezza e 18 d’altezza, la parete ideale è quella posteriore del Convento dei Frati Servi di Maria, dietro alla chiesa di Sant’Antonio Abate, che dà sulla stazione degli autobus extraurbani. Strappano un incredibile sì, la sera precedente l’inizio dei lavori Keith decide di passarla nel refettorio con i frati: un artista di rottura, che non nascondeva la sua omosessualità, critico e duro verso la religione, a banchettare con un gruppo di frati. Una congiunzione quasi mistica.
KEITH HARING A PISA
Keith Haring annota nei suoi diari l’irrequietezza e l’ansia, mentre aspetta all’aeroporto di Milano l’aereo che l’avrebbe portato a Pisa. Ha in mente solo qualche idea che poi si tramuta in schizzi nei giorni successivi quando visita la città, osserva, si lascia prendere. L’azienda di vernici Caparol Center di Vicopisano ridipinge di bianco tutta la superficie e dona all’artista e al progetto tutta la pittura necessaria alla realizzazione dell’opera. Le “notti magiche” che raccontano l’estate italiana così nostalgica, effervescente e illusa, le scopriremo solo con i Mondiali di Italia 90’, ma quei giorni e quelle sere di giugno è uno sprigionarsi continuo di emozioni e di sentimenti: Haring coinvolge la comunità, è un catalizzatore per gli “street kids” della cultura underground e suburbana, la sua stessa matrice graffistista che nelle viscere non ha mai abbandonato. Nei quattro giorni intensi, con un ghettoblaster sempre acceso, si affacciano b-boys pisani e poi delle altre regioni, breakdancer, poi ancora passanti, galleristi, esperti di arte o semplici ammiratori. Si fa aiutare da alcuni ragazzi, tutto il mondo è ai suoi piedi, lui che non ha mai dato un titolo alle sue opere, durante un’intervista si fa sfuggire una frase: “Nemmeno questo dipinto ne ha uno, ma se dovesse avere un titolo sarebbe qualcosa come Tuttomondo!”.
“Si sentiva protetto da questa grande tradizione e dalla sincerità di chi lo aveva accolto a braccia aperte” – confida ancora Piergiorgio Castellani – “addirittura senza chiedergli di presentare un bozzetto preliminare del murale che avrebbe realizzato in un centro storico protetto da vincoli burocratici. Lui che veniva anche arrestato per le sue performance pubbliche, a Pisa è stato accolto nel cuore della tradizione cattolica che tanto ha dato alla storia dell’arte, una piccola città sede di una delle più antiche università europee, fiduciosa che quell’opera avrebbe reso la realtà un luogo migliore in cui vivere e arricchirsi culturalmente. Sapeva che la malattia lo stava rapidamente uccidendo, mi chiese di realizzare una festa finale invitando tutte le persone che avevano assistito alla realizzazione dell’opera e anche di chiamare i suoi amici all’estero”.
IL MURALE TUTTOMONDO
In una ritmata vitalità e forza, trenta figure si toccano l’un l’altra: è l’energia genitrice del mondo, è la pace e l’armonia. Dalla Croce pisana, al centro del murale, al legame indissolubile dell’uomo con la natura, e ancora due uomini, fusi assieme, che formano un paio di forbici ‒rappresentazione del bene ‒ che taglia a metà un serpente, il male; una donna che tiene in grembo il suo bimbo, fino all’irrefrenabile gioia che accomuna tutti nella danza. È la cornice esperienziale dell’artista, del suo vissuto, che spiega Tuttomondo e i suoi numerosi perché. Ancora sul suo diario annota: “Sto seduto sul balcone a guardare la cima della Torre Pendente. È davvero molto bello qui. Se c’è un paradiso, spero che assomigli a questo”.
“Piergiorgio, è stato un sogno, adesso devo ritornare alla realtà”, gli disse con le valigie ormai chiuse e un biglietto in mano per New York. Una realtà fatta di appuntamenti, di galleristi, di personaggi sinistri che lo volevano circuire per commissionargli qualche lavoro, sapendo che stava morendo, e che quelle stesse opere avrebbero avuto un altro e alto valore economico. Prima di andarsene da Pisa, Keith investe Piergiorgio di un ultimo grande compito, la realizzazione di un’immensa retrospettiva partendo dal palazzo Lanfranchi di Pisa per poi andare a Roma, Parigi, Tokyo e chiudere a New York.
I RICORDI DI PIERGIORGIO CASTELLANI
Ma è una storia sospesa come la vita di un ragazzo interrotta a nemmeno 32 anni: “Conservo ancora il fax che mi inviò, diceva che in quel momento della sua vita le priorità erano cambiate, si scusò profondamente. Era il dicembre 1989, due mesi prima della morte. Negli anni successivi e tutt’ora sono rimasto in contatto con i suoi parenti e con Julia Gruen, sua amica di viaggio e fino a qualche mese fa direttrice della Fondazione Keith Haring che sorge nello stesso studio di Manhattan dove ci siamo conosciuti. Mi sono allontanato dal mondo dell’arte, ho solo creato un progetto, Materia Prima, che si occupa di valorizzare giovani artisti all’interno di uno spazio bucolico al centro del verde, a Ceppaiano, alle porte di Pisa. Per anni ho conservato un bozzetto che Keith mi regalò sapendo che la mia famiglia ha una lunga tradizione nella produzione di vini: voleva che usassi quel suo disegno per un’etichetta, ho aspettato 30 anni prima di dedicargli un vino. E con i soldi ricavati finanzio la stessa Materia Prima. Ho voluto mantenere la mia fedeltà a quella visione dell’arte scevra da interessi privati e monetari. La mia esperienza si apre e si chiude con l’amicizia con questo ragazzo speciale”.
‒ Giovanni Sgobba
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