Il caso del Plastic di Milano. Intervista a Sergio Tavelli
A poco più di un mese dalla morte di Lucio Nisi, uno dei fondatori del Plastic di Milano, la parola va a Sergio Tavelli, responsabile di alcune serate offerte dal celebre club milanese.
In che modo il clubbing ha rappresentato uno spazio di apertura per il voguing? Quali locali, a New York come a Milano, hanno creato le premesse per una cultura musicale urbana che ha favorito o intercettato altre comunità e movimenti? Ne abbiamo parlato con Sergio Tavelli, dal 2017 ideatore del celebre party del sabato notte Club Domani alla discoteca Plastic di Milano, dove lavora da metà Anni Novanta. Precedentemente art director della famosa House of Bordello, i suoi dj set sono apprezzati in tutta Europa e negli USA, in particolare a New York. Ha curato soundtrack per diverse sfilate a Milano, Londra, Parigi e Firenze, per marchi come Cavalli, Burberry, Moschino, Antonio Marras, Ferragamo, Les Copains, Msgm, N°21, Blumarine, Elisabetta Franchi, Simonetta Ravizza, Valentino e molti altri.
Nell’immaginario cinematografico il voguing è noto a partire dal documentario di Jennie Livingston, Paris is Burning. Qual è stata la tua esperienza, pur non facendo parte di questa scena, ma avendo frequentato i club di New York?
Quando andavo a New York nei primi Anni Novanta, ricordo che si trattava di una realtà di strada, tanto che molti la definivano la “breakdance della comunità gay”. In Italia è arrivato diversi anni dopo, come fenomeno legato allo stile, alla moda e alla danza. Le ball che si organizzano oggi sono degli eventi. Mentre quando andavo al Life, che era un club multietnico e multiculturale, erano momenti inaspettati, che venivano anticipati da un codice: delle pile che si accendevano, delle braccia che si alzavano e un gruppo di persone che occupava il palco. La ball era una consacrazione di quanto avveniva in strada, perché non tutti potevano permettersi di andare a ballare in locali come il Sound Factory. Si parla di una comunità composta da afroamericani e latinoamericani omosessuali, che utilizzava il voguing e le ball come via di fuga dalla realtà.
Madonna frequentava il Sound Factory. Possiamo dire che è con Vogue del 1990 che il fenomeno è diventato mainstream?
Ha amplificato la sua diffusione, però non bisogna dimenticare che è stato Malcolm McLaren il primo ad averlo fatto conoscere a livello popolare, con l’album Waltz Darling del 1989, realizzato in collaborazione con la Bootzilla Orchestra.
Cinema e moda. Qual è il riferimento principale?
La moda. Sognare di essere delle top model era un’occasione per evadere dalla realtà. La favolosa nudità, l’outfit come status, le coreografie degli Anni Ottanta, le pose sui fashion magazine: tutto questo concorreva a creare un mondo immaginario che era una forma di riscatto sociale.
Qual è il background musicale?
In origine il riferimento era la musica disco. Non quella dello Studio 54. La scena era più legata alla musica dei locali neri, come il Paradise Garage, a dj come Larry Levan, oppure a classici come The Ha Dance dei Master At Work. Oggi ci sono etichette come la Qween Beat di MikeQ o la Fade To Mind di Kingdom, che hanno iniziato a giocare in maniera più moderna con i tipici ritmi spezzati della house e del garage, che ne hanno forgiato l’immaginario sonoro tra gli Anni Ottanta e Novanta.
Esiste una relazione tra il Plastic e la popolarità che il voguing sta riscontrando da alcuni anni a Milano?
Non diretta, perché clubbing e ballroom sono due realtà diverse. Da un punto di vista culturale, però, ci sono delle convergenze. Motivo per cui nel 2009 avevamo invitato al Plastic Xavier Ninja, della storica House of Ninja. Ma la sua performance riguardava la danza intesa come spettacolo, non il voguing come movimento.
Però possiamo dire che il Plastic è un punto di riferimento per la comunità LGBTQ*?
Certamente, soprattutto per chi viene da fuori. Non tutti hanno alle spalle storie di rottura con la famiglia. Anzi, oggi sempre meno. Nonostante ciò, al Plastic trovano un luogo che li accoglie e in cui possono andare anche da soli, perché è un club vero e proprio. Dopo un paio di volte che lo si frequenta, ci si conosce tutti.
Quando è iniziata la tua collaborazione?
Sono arrivato nel 1991, quindi dopo la sua nascita, che è avvenuta nel 1980. È un locale che ha fatto la storia del clubbing milanese. Non solo si è conquistato una fama internazionale, ma ha introdotto una visione nuova e allo stesso tempo rispettosa dell’identità territoriale. Negli Anni Ottanta, periodo in cui le discoteche erano molto scenografiche, il Plastic si presentava come un parallelepipedo nero, senza luce, spoglio, con la segatura a terra, che puntava tutto sulla musica.
“È un locale che ha fatto la storia del clubbing milanese. Non solo si è conquistato una fama internazionale, ma ha introdotto una visione nuova e allo stesso tempo rispettosa dell’identità territoriale”.
Musicalmente che cosa propone di diverso?
La serata che curo io insieme ad Andrea Ratti, Club Domani, ha un imprinting house. Ma in generale il Plastic propone un modello che era quello dei primi locali gay, dove la musica aveva un ruolo centrale, era ricercata e non commerciale come nelle discoteche. A New York un riferimento imprescindibile era The Loft di David Mancuso.
Dicevamo che la selezione è diventata un elemento distintivo.
Sì, il Plastic è stato uno dei primi locali a fare selezione all’ingresso. Ma non per motivi legati allo stile. Quando Nicola Guiducci lo aprì nel 1980, i suoi amici erano punk, dark e la selezione era un modo per “autoghettizzarsi”, una strategia per proteggere una comunità che veniva discriminata nella vita di tutti i giorni, anche dalle forze dell’ordine. Bastava essere gay o avere i capelli rosa per essere fermati e portati in Questura.
Una breve incursione nel passato. Quali erano i club più noti negli Anni Ottanta a Milano?
Il Virus, che era un centro sociale, e l’Isterica, dove poteva “rifugiarsi” chi veniva escluso da altri club. L’Isterica è nato nello stesso periodo del Plastic, ma si dice che sia stato spazzato via dalla sua connotazione fashion. Con Vivienne Westwood c’è stata una forte convergenza tra punk e moda, che il Plastic ha assecondato.
Non c’è stata una distinzione, all’interno della comunità punk, tra chi si riteneva “più autentico” e chi abbracciava la moda?
Sì, c’è stato chi ha continuato a frequentare i centri sociali, che erano, ai tempi delle Brigate Rosse, molto politicizzati. Il Virus si trovava in una zona residenziale. La sua presenza in quel luogo creava delle frizioni. Però si trattava di spazi che avevano una funzione molto precisa: offrire una proposta musicale di qualità. Chi frequentava l’Isterica lo faceva perché lì mettevano solo new wave.
‒ Carlotta Petracci
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #51
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